© Alessandro Scarano 2007
Asmara, 12 agosto 2007
Dopo aver ammirato ciò che gli Italiani sono riusciti a costruire in pochi anni in Etiopia, mi era rimasta la curiosità di vedere il risultato di un più lungo periodo di dominio in quell’Eritrea dalla quale è iniziata la nostra colonizzazione dell’Africa Orientale (A.O.I., appunto).
Sicchè, dopo un volo notturno con la Eritrea Airlines (750 euro a/r ed una immane disorganizzazione nella gestione dell’aereo: posti non pre-assegnati al check in, pasti e bevande distribuiti senza criterio veruno e non ritirati per più di un’ora) sono arrivato con un taxi (300 Nfa) all’Africa Pension insieme alla mia compagna di viaggio.
L’albergo è una ex villa italiana, situata nella zona residenziale di Asmara (a sud di Harnet Avenue) proprio di fronte alla bella Villa Roma, residenza dell’ambasciatore italiano.
Un breve riposo e via, alla scoperta della capitale.
Per strada abbiamo incontrato il classico studente che – approfittando della giornata festiva – cerca di fare da guida turistica, tale Filippo, che parla anche italiano, e che ci ha portato un pò a zonzo, facendoci vedere principalmente chiese (tutte chiuse per l’ora “tarda”, ovvero le 11 del mattino).
Siamo comunque riusciti a salire sul campanile della cattedrale cattolica in Harnet Avenue per ammirare il panorama della città.
Cattedrale e chiese copte non sembrano un granchè, il mercato è chiuso perchè è domenica, e perfino nella stazione ferroviaria manca il famoso treno a vapore, sempre perché di domenica dovrebbe essere attivo sulla breve linea restaurata, fino a Nefasit.
Filippo, che è di origine etiope, mi ha raccontato dei suoi studi di zoologia e delle difficoltà per la gioventù locale nel trovare lavoro.
Pare che qui il servizio militare non abbia una durata prestabilita, e che si rischi di partire e tornare anche dopo sette anni (!), sicché o si studia, o si scappa all’estero.
Dopodiché ha “sparato alto”, e mi ha chiesto di pagargli un Oxford Dictionary (48 euro) per aiutarlo a studiare: quanto meno è stato originale e non ha fatto la solita lagna per le medicine della madre/moglie/sorella, sicché gli ho dato 400 nakfa (20 euro, pure troppi, ma almeno incrementiamo l’economia locale dando soldi a chi ha un minimo di capacità imprenditoriale...) e me lo sono tolto di mezzo.
Dopo una sosta all’albergo, abbiamo proseguito la passeggiata per Asmara, ammirando i bei palazzi costruiti in epoca fascista e dal caratteristico stile littorio, finchè la stagione delle piogge ci si è parata davanti con un muro d’acqua ed un blackout cittadino di un’ora e mezzo, che abbiamo trascorso al riparo dentro una galleria di negozi su Harnet Avenue.
Tornata la luce, siamo andati a cena all’Hamasien Restaurant (nulla a che fare con l’omonimo albergo), dove per 170 Nfa abbiamo mangiato buoni piatti locali.
Se di giorno si gira in maglietta, la sera fa freddino e una felpa sembra non bastare: in fin dei conti, siamo a quasi 2.400 metri!
Asmara, 13 agosto
Dopo una breve colazione al Caffè Asmara, su Harnet Avenue, siamo andati a chiedere i permessi per i giri fuori città nell’apposito ufficio (anch’esso sulla strada principale).
I permessi costano 20 Nfa per persona, e saranno pronti nel pomeriggio.
In Eritrea servono i permessi da parte dello Stato per andare ovunque, in modo tale che il regime – perché di regime socialista si tratta, con un presidente/dittatore – possa controllare ogni spostamento degli stranieri sul territorio.
Abbiamo poi completato il “percorso 2” proposto dalla Lonely Planet, interrotto ieri per il fortunale, e abbiamo camminato anche per il “percorso 3”.
Siamo quindi, alla fine, riusciti a vedere tutto quanto ha di bello questa città, a metà tra Sabaudia e Centocelle, che potrebbe benissimo sembrare una città italiana del meridione, se non fosse per la popolazione nera.
Numerose le insegne in italiano, lingua peraltro parlata dalla maggior parte della popolazione anziana, che passeggia dignitosamente per le vie (gli uomini quasi sempre in giacca, come usava una volta).
La città è praticamente divisa in due settori da Harnet Avenue, che scorre diritta da est a ovest (o viceversa, naturalmente): a sud c’è la elegante zona dei villini liberty, circondati da siepi di buganvillee e posti su piccoli rilievi, mentre a nord c’è la zona più “africana”, con edifici sempre costruiti secondo stili italiani, ma di minor pregio (è la zona commerciale, con il mercato e la maggior parte dei negozi).
Diversi i cinema, tutti in pieno stile razionalista e tutti molto grandi (il cinema Impero pare abbia ben 1.800 posti a sedere), alcuni con ancora esposti i manifesti di b-movies italiani degli anni ’70.
Nel pomeriggio abbiamo ritirato i permessi all’ufficio del Ministero del Turismo e abbiamo provato ad organizzare la gita a Kohaito e Senafe con la Travel House International, il cui simpatico titolare – che parla benissimo l’italiano, avendo vissuto e studiato per sette anni a Milano – non ci ha però saputo dare una risposta definitiva, avendo a disposizione al momento solo un pullmino per turisti e non una jeep.
Alla Explore Eritrea, invece, ci hanno chiesto 350 dollari per un giro di due giorni, con pernotto a Senafe.
Indecisi sul da farsi, abbiamo rimandato la decisione a domattina e siamo andati a cena al Milano Restaurant (161 Nfa in due), dove la mia compagna di viaggio ha persino provato le lasagne, ritenendole buone ma un pò piccanti.
Asmara, 14 agosto
Oggi abbiamo trattato con la Travel House per una gita di due giorni fino a Senafe per 300 dollari.
Rimediati (a 150 Nfa l’uno) i permessi per le zone archeologiche (in aggiunta ai permessi “generali” di visita che già avevamo avuto pagare) al locale – e poco fornito – Museo Nazionale, siamo andati a prendere il pullman per Keren.
Esperienza quasi surreale, con una fila che si faceva e disfaceva dietro un bastone steso per terra a mò di limite invalicabile, per poi affollarsi tutti disordinatamente fuori dalla porta del mezzo.
Alla fine siamo partiti (biglietto 23 Nfa l’uno) e, passati per una regione verde per le recenti piogge, siamo arrivati dopo tre ore a Keren (compresa una sosta di circa mezz’ora in un “autogrill” locale).
Keren non merita – secondo me – una visita, ma visto che c’eravamo siamo andati a visitare il cimitero militare italiano (tenuto impeccabilmente da un vecchio custode che, albo dei visitatori alla mano, ci ha fatto vedere come quasi tutti i giorni ci sia qualcuno che viene fin qua a rendere omaggio ai caduti), e poi ci siamo incamminati per la campagna per vedere il grande baobab ove è venerata la madonna di Maryam Daarit, distante circa mezz’ora di cammino dalla città.
Ciò fatto, siamo tornati alla stazione degli autobus (ex stazione ferroviaria italiana) e siamo ripartiti alla volta di Asmara.
Cena a quello che la Lonely Planet chiama Legese Restaurant e definisce “un’istituzione ad Asmara”.
In realtà, è il ristorante del Central Hotel, è squalliduccio, il menu scarsissimo per varietà di cibo (150 Nfa in due).
Domattina si parte per la gita verso Kohaito e Metere, due siti archeologici che so già promettere poco e mantenere meno, ma questo è quel che passa il convento.
Senafe, 15 agosto
Tekle, l’autista che ci porterà in giro per i prossimi due giorni, è lo stesso che ha accompagnato gli autori di una serie di documentari sull’Eritrea visti su Marcopolo proprio prima di partire: è puntuale alle 7, e ci conduce – via Dekemhare, posto abbastanza insulso – dapprima alla Valle dei Sicomori, ove fanno bella mostra di sè questi grossi alberi dalla chioma gigantesca, vecchi di secoli.
Siamo poi passati da Adi Keyth e dal suo vivace mercato, per poi lasciare la strada ed inoltrarci attraverso il verde intenso dei campi d’orzo fino ad un villaggio dove tiriamo a bordo una guida per il sito di Kohaito.
Questi prima ci porta, con una passeggiata di circa mezz’ora tra andata e ritorno, su di un costone roccioso ove sono delle piccole pitture rupestri in un anfratto che serve da riparo alle capre.
Di Kohaito, città risalente all’epoca axumita, rimane ben poco, e quel poco che c’è è sotto terra (come ad Axum stessa, peraltro).
Spuntano solo quattro gruppi di quattro colonne, una tomba, ed una diga che ha permesso agli abitanti del villaggio di usufruire ancora oggi di una cisterna per l’irrigazione.
Siamo alla fine arrivati a Senafe, tutt’altro che ridente cittadina, pesantemente bombardata nel 2000 dall’aviazione etiope e ancora semidistrutta, con dei cartelli all’ingresso della città che avvisano di stare attenti a mine e residuati bellici sparsi in giro.
Qui abbiamo preso alloggio nel Mama Roma Hotel, che pare essere il meno peggio della città ma che ha comunque degli standards qualitativi abbastanza bassi; è per una sola notte e ci adatteremo, sperando bene.
La corrente elettrica è fornita in città solo ed unicamente dalle 19 alle 22, per cui credo che trovare qualcosa di fresco da bere sarà praticamente impossibile.
Siamo andati al locale ufficio governativo per far controllare il permesso, e lì un milite ci ha detto che fino a ieri si poteva arrivare a Metere, ma da oggi niente da fare.
Allora Tekle si è dato da fare chiedendo al comandante del posto di consentirci di visitare ugualmente il sito archeologico (che si trova a 2 km circa da Senafe verso la vicina frontiera con l’Etiopia), finché abbiamo ottenuto l’agognato permesso.
Dopo un giro per le strade polverose fino al mercato polveroso siamo rientrati per riposare, chiedendoci che si potrà mai fare qui per passare il tempo fino all’ora di cena.
Il pasto serale è stato consumato al ristorante del Momona Hotel (l’albergo è stato bombardato, ma il ristorante sul retro funziona ancora), dove in fin dei conti non abbiamo mangiato male e ho persino trovato una bottiglia di acqua fredda a puntino (186 Nfa compresa la cena dell’autista, che in teoria sarebbe compresa nel prezzo di 300 dollari, ma per pochi spiccioli non ci è sembrato il caso di sollevare una questione).
A letto con le galline, come si suol dire, e nei sacchi a pelo nonostante avessimo fatto cambiare le lenzuola, palesemente usate.
Asmara, 16 agosto
Una nottataccia, grazie al continuo scroscio di acqua nel cortile (una perdita dal serbatoio dei bagni) e all’ululare dei cani in città.
Siamo comunque riusciti a partire alle 7 per vedere Metere, con le sue rovine sorprendentemente maggiori della più celebrata Kohaito (ma pare che qui il governo Etiope permise a dei francesi di scavare, purchè tutte le suppellettili ritrovate fossero portate ad Addis Abeba): oltre alla famosa stele con i simboli del sole e della luna, ci sono i resti di cinque grossi edifici e l’inizio di quello che nella mitologia locale sarebbe un triplo tunnel, che condurrebbe a Kohaito, Adulis, ed Axum.
Fatte di corsa le foto perchè la nebbia stava avanzando, abbiamo deciso di intraprendere la scalata dell’Amba Metere, uno dei massicci rocciosi che dominano Senafe.
Guidati da due ragazzetti locali che parlavano inglese, dopo aver versato 20 Nfa al prete locale per avere il permeso di salire (il furbacchione ne avrebbe voluti di più, ma abbiamo fatto cenno di andarcene riprendendoci i soldi, e allora si è “accontentato”) ci siamo inerpicati – non senza fiatone, in fondo dovremmo essere intorno ai 2.700 metri – fino alla croce che si trova in cima, vedendo durante il percorso tombe di monaci ed un gruppo di grosse scimmie.
Dalla cima si gode di un bel panorama, che purtroppo si è in breve ridotto per l’arrivo di nuvole basse.
Scesi dalla roccia e dati 100 Nfa (in tutto) e una manciata di penne alle due giovani guide, siamo ripartiti per Asmara, con una deviazione per Hebò, villaggio sperduto cui si arriva con una strada sterrata che parte dalla Valle dei Sicomori.
Tale villaggio è caratterizzato dalla presenza di una missione cattolica e di una enorme quanto inutile chiesa nuova, eretta dinanzi alla vecchia (peraltro pure carina) tra aiuole fiorite e bimbetti che chiedono “caramelle” in italiano.
Lo spreco di denaro per la costruzione di un simile obbrobrio architettonico in una zona così povera ci ha resi molto perplessi.
Tornati ad Asmara, abbiamo visitato il cimitero italiano, più grande di quanto ci aspettassimo, anche se la visita si è limitata (sotto la pioggia) a quello militare, abbastanza ben tenuto ma meno di quello di Keren.
Confermato il volo di ritorno agli uffici della Eritrean su Harnet Avenue, dopo un inutile tentativo di contattare casa telefonicamente siamo tornati per la cena all’Hamasien.
Domattina si va al mare e – crediamo – al caldo atroce del Mar Rosso in estate.
Massawa, 17 agosto
Taxi fino alla stazione degli autobus (50 Nfa) e piccolo bus per Massawa (100 Nfa in due, compresi i bagagli sul tetto).
Il viaggio è durato 3 ore lungo la c.d. “strada degli italiani”, che si sonda dai 2.400 metri di Asmara fino al mare in soli 100 km.
Durante il percorso abbiamo potuto ammirare quel capolavoro dell’italico ingegno (considerati i mezzi dell’epoca) che è la ferrovia che spesso costeggia la strada, mentre a volte si perde in tracciati tortuosi che con una serie di gallerie perforano i costoni montagnosi per poi ricomparire nuovamente ai margini della carreggiata.
Scendendo verso Massawa il caldo è aumentato, ma è stato il disagio minore rispetto alle pulci che hanno aggredito le nostre caviglie (il dubbio era che provenissero dal ragazzo addetto ai biglietti, considerate le condizioni igieniche della sua persona e del suo vestiario), ed ai due tipi che sono saliti a Ghinda, allietando il nostro olfatto con un puzzo terrificante.
Prima di arrivare alla meta finale siamo anche riusciti a vedere la collinetta ove è ricordato (o celebrato, a seconda delle parti) il massacro di Dogali.
Arrivati nella zona “continentale” di Massawa, dopo essere passati per una estesa e polverosa bidonville, abbiamo preso un taxi che per 50 Nfa ci ha portati al Red Sea Hotel, che – costruito da un architetto italiano sull’isola di Taulud, dovrebbe essere il migliore della città (visto che il Dahlak Hotel è chiuso per ingrandire la struttura ed è oggi un vero e proprio cantiere), ma le cui stanze – comunque tenute malino per la categoria cui vorrebbe appartenere – si sono rivelate dotate di un’aria condizionata dal funzionamento totalmente insufficiente.
Malgrado il direttore avesse promesso di far risolvere il problema in giornata, il divario di temperatura tra la primaverile Asmara e l’inferno locale era tale da farci scegliere di abbandonare l’albergo e portare i bagagli 500 metri più in là al Central Hotel, dalle stanze meno pretenziose ma dal condizionatore funzionante (463 Nfa a notte la doppia).
Siamo anche stati fortunati a trovare una stanza, perché nel weekend molti eritrei vengono a Massawa per andare al mare.
Siamo caduti in catalessi fino al tardo pomeriggio, quando siamo usciti per una passeggiata per l’isola di Taulud e ci siamo resi conto di quale disastro abbia portato qui la guerra (Massawa è stata bombardata a causa del porto) e di quanto pochi siano stati gli sforzi (o le possibilità?) di ripristinare quello che una volta doveva essere un bel posto.
Il palazzo imperiale è stato bombardato e ha la cupola sventrata, e i tentativi di avere informazioni presso l’adiacente Eritrean Shipping Lines sul loro albergo alle Isole Dahlak sono stati frustrati da un impiegato che con uno scarsissimo inglese ci ha invitato a rivolgerci al Diving Center.
Qui ci hanno confermato i prezzi che già conoscevamo per le escursioni alle Dahlak (9.500 Nfa per il primo giorno entro le 25 miglia e 4.000 Nfa per ogni giorno successivo, con una barca per 8 persone), e ci hanno detto che il Luul Hotel – l’unico presente sulle isole – è chiuso per ristrutturazioni.
Siamo rimasti d’accordo per sentirci domani per organizzare un giro, e siamo andati alla ricerca di Villa Melotti, di proprietà dei fabbricanti dell’omonima birra ora nota come “Asmara”.
Quella che – stando alla Lonely Planet – doveva essere una delle più belle ville del mondo, però, non c’è più, e anche le altre ville italiane sono abbastanza in rovina (scoprirò al mio ritorno in Italia che Villa Melotti è stata rasa al suolo per ordine del dittatore, il quale voleva espropriarla a prezzo vile e che – urtato dal fatto che il vice ambasciatore italiano si fosse interessato della cosa, lo ha fatto arrestare e cacciare dall’Eritrea, dopodiché per capriccio ha deciso che la villa doveva essere distrutta).
Passati sull’altra isola di Massawa, siamo andati a cena al ristorante Sellam (noto anche come Dankalo), ove per 235 Nfa abbiamo mangiato uno strepitoso e abbondantissimo pesce al forno con pane tipo “chapati”.
Massawa, 18 agosto
Nonostante gli accordi, nessuno del Diving Center si è presentato stamattina al nostro albergo, sicché abbiamo chiamato Saba, una signora eritrea che vive a Parma, conosciuta all’aeroporto di Fiumicino, che gentilmente ci ha accompagnato alla spiaggia davanti al Gurgussum Beach Hotel, a qualche chilometro di distanza da Massawa.
Invero, questa spiaggia è sporca un bel pò, ma ci sono degli ombrelloni (a 20 Nfa al giorno) ed alcune sdraio di plastica un pò malridotte.
Tira un vento caldo infernale, sembra di avere davanti un enorme phon, sicché cerco refrigerio in acqua.
Neanche per idea.
Quando vi metto i piedi quasi strabuzzo gli occhi: mai sentita una roba simile, saranno almeno 40 gradi, e nella parte più bassa quasi scotta.
Nessuna possibilità di rinfrescarsi, dunque, ed anzi la pressione mi si abbassa tanto da costringermi a prendere una pasticca di Polase (io, che ho sempre retto il caldo senza problemi... sarà l’età?) e ad andare a mangiare qualcosa al ristorante del Gurgussum Beach Hotel.
Qui, essendo sabato, c’è il pranzo a buffet, e i locali ne approfittano alla grande riempiendosi i piatti più volte ed in quantità notevoli.
Tornati in spiaggia, vi siamo rimasti fin verso le 18,30, allorché Saba è tornata e ci ha riportati in albergo.
Cena al solito Sellam, stavolta in compagnia di una giovane coppia di Milano conosciuta al ristorante del Gurgussum Beach Hotel.
Massawa, 19 agosto
Oggi ci siamo accodati con il Diving Center per una gita a Green Island (70$).
Siamo partiti con una barchetta con tendone e due motori fuoribordo da 80 cavalli l’uno, e dopo 10 minuti siamo già arrivati.
In pratica si tratta dell’isolotto di fronte al nostro albergo, e se avessimo avuto un materassino ci saremmo potuti arrivare anche a nuoto.
Almeno c’è aria fresca, dopo l’immane sudata conseguente alla camminata mattutina dal nostro Central Hotel al Red Sea Hotel per cambiare dei soldi (oggi è domenica, e quando le banche sono chiuse il Red Sea è l’unico posto a Massawa dove si può fare del cambio valuta) e da lì al Diving Center per prendere accordi, e dal Diving Center al Central Hotel e ritorno per rimediare attrezzatura, cibo ed acqua.
La barriera corallina vicino a Green Island, un piccolo isolotto con delle mangrovie, una striscia di sabbia ed una nave incagliata, è abitata da numerosi pesci, anche se non colorati come quelli che vidi ad Hurgada, sempre nel Mar Rosso.
Facendo snorkelling il tempo è passato rapidamente, il caldo non si è sentito, e la scorta d’acqua è stata intaccata solo minimamente.
Ho avuto la precauzione di fare il bagno con la maglietta e, nonostante fossi già abbronzato (la stagione balneare per me in Italia comincia a marzo), alla fine il mio collo era color melanzana.
Verso le 16,30 si è alzato un forte vento (pare sia dipeso dal fatto che ad Asmara ci sia stato brutto tempo), e siamo dovuti rientrare sballottati dalle onde e bagnati fradici.
Sfiniti dalla giornata, abbiamo cenato in albergo (ovvero in riva al mare, nel buio quasi totale mitigato da un paio di candele anti zanzara portate da noi, ma almeno lontani dagli ospiti locali, che si erano radunati intorno al televisore che trasmetteva una monocorde intervista al presidente della repubblica - dittatore).
Massawa, 20 agosto
Oggi, finalmente, giro per la città – dopo tre giorni ancora non eravamo riusciti a vedere di giorno l’isola con le case più antiche – per le foto di rito.
Solito caldo immane ed opprimente, con conseguente abbondante e continua sudata.
Il posto non è grande, si gira in mezza mattinata, e risente ancora dei bombardamenti, soprattutto nella zona più prossima al porto.
Il bel palazzo della Banca d’Italia è ridotto maluccio, e solo in una delle tradizionali case costruite con pietra di corallo sono cominciati i lavori di ristrutturazione (in cemento, ovviamente!).
Dopo la passeggiata abbiamo pranzato in albergo, e ci siamo rinchiusi in camera con l’aria condizionata a manetta – ed era sì e no sufficiente a mitigare il caldo – mentre fuori si scatenava un forte vento, quasi come quello che ieri ci ha sorpreso al rientro dall’Isola Verde.
Cena ancora al Sellam, unico ristorante della città vecchia ad essere costantemente frequentato.
Domani si parte per la gita di due giorni alle Dahlak.
Dahret, 21 agosto
Finalmente alle Dahlak!
Il paradiso dei paradisi dei sub è effettivamente quel che si dice in giro.
Quelli del Diving Center ci sono venuti a prendere con un pickup, abbiamo comprato l’acqua e un pò di banane (loro provvedono al ghiaccio, alla legna, e a pescare del pesce), abbiamo compilato i moduli per i permessi governativi (320 Nfa per uno) che il Diving Center ha provveduto a prendere, e siamo salpati a bordo della stessa barca che ci ha portato all’Isola Verde, il Segen 1, che in un’ora di navigazione – e dopo aver passato il controllo dei permessi alla “polizia portuale” presso il faro – ci ha portato all’isola di Dahret, più indicata dello snorkelling (a dire del pilota) rispetto a Dissei, dove invece il reef si trova a quasi 20 metri di profondità.
Sbarcata tutta l’attrezzatura, ci siamo infilati maschera e pinne e ci siamo immersi.
L’acqua è calda ma non bollente come a Gurgussum, la visibilità abbastanza buona, avanziamo dalla riva con il fondale basso e sabbioso dove si vedono solo un mucchio di paguri.
Più in là i primi coralli, sparsi tra la sabbia con dei rari pescetti intorno.
Ancora pochi metri, e all’improvviso il mondo circostante esplode in una miriade di colori, fissi ed in movimento: un giardino fiorito con tanto di aiuole, alberi, palme, siepi, popolato da abitanti in livree diverse solitari, a coppie, in gruppi di decine o di centinaia, grandi un metro e mezzo o piccoli due centimetri.
Ho fatto snorkelling a Bir Ali nello Yemen, a Hurgada in Egitto, in Oman, in Sri Lanka, perfino (?) in Italia, ho visto diversi documentari sulla vita subacquea, ma non ho mai visto la molteplicità di specie di coralli che ci sono qui alle Dahlak: morbidi e duri, a forma di sassi o di alberi, blu, verdi, gialli, rossi, viola, e via discorrendo.
Ho scoperto di essere rimasto in acqua per delle ore, senza mai annoiarmi: che bello!
Alla fine della giornata siamo tornati su questa isoletta piccola, piatta e quasi deserta, se non fosse per una colonia di uccelli e qualche paguro, ci siamo lavati con l’acqua minerale e le salviette umidificate, rivestiti (poco, visto che comunque fa abbastanza caldo), e abbiamo mangiato una zuppa di pesce un pò insipida preparata dal pilota e dal suo compagno pescatore/cuoco con i pesci pescati mentre noi eravamo in acqua (nessuno aveva pensato a portare del sale o dell’altro condimento).
A dormire presto, nei sacchi a pelo lasciati aperti per via del vento caldo, e nottata che si preannuncia (quasi) insonne.
Massawa, 22 agosto
La mattina alle 7 altro bagno, e poi trasferimento con la barca nei pressi di altre due isolette vicine a Dahret, una dal fondale di scarso interesse (ma nel tragitto abbiamo visto un paio di mante), e l’altra dai coralli meno belli di Dahret ma più popolati da pesci più grossi.
Ho fatto diverse foto subacquee con una macchinetta da pochi euro comprata lo scorso anno con la rivista “L’Airone”, speriamo che la riuscita sia – se non buona – almeno decente.
Siamo poi tornati a Dahret, per vedere il reef sull’altro lato dell’isola, e poi all’una ci siamo mossi per tornare a Massawa in tempo per evitare il vento causato dai temporali sull’altopiano di Asmara.
Al Diving Center abbiamo pagato, dopodiché si sono rifiutati di darci un passaggio con la macchina fino all’albergo (cosa che avrebbe richiesto non più di cinque minuti tra andare e tornare), e quindi ci siamo dovuti incamminare con tutta la roba in spalla.
Abbiamo preso alloggio nuovamente al Central Hotel, dove siamo stramazzati sul letto distrutti da sei ore di nuoto.
Ho cenato, ancora una volta, al Sellam, dove ho incontrato un viaggiatore solitario di Monza, in attesa di trovare compagni per dividere la spesa di un giro alle Dahlak.
Asmara, 23 agosto
Stamattina passeggiata “benefica” per l’isola di Massawa vecchia.
Avevamo qualche maglietta usata e un pò di pennarelli colorati da distribuire ai bambini locali, e ho scelto di proposito di andare nella zona bombardata vicino al porto, dove c’è gente che vive in condizioni più precarie rispetto al resto della popolazione locale.
Ovviamente, i bambini sono stati molto felici dei pennarelli, ma uno al quale avevo dato una maglietta ricordo di un mio viaggio in Irlanda mi ha raggiunto poco dopo, lamentandosi di un piccolo buco e pretendendo di cambiarla con un’altra dell’Hard Rock Cafè di Stoccolma, conciata molto peggio. Mah!
Raggiunta con un taxi (60 Nfa) la stazione dei bus, dopo circa un’ora di attesa per far riempire il mezzo siamo partiti per Asmara (100 Nfa per due persone più i bagagli, come all’andata).
Durante le quattro ore di viaggio ci siamo fermati per una mezz’ora a Ghinda e poi ancora lungo la strada, perché l’autista voleva comprare dei fichi d’india.
Ho visto un ragazzino che vendeva tali frutti con addosso il simulacro di una maglietta, e gli ho dato quella rifiutata dal bombardato (evidentemente non abbastanza) di Massawa: un sorriso a 64 denti mi ha ampiamente ripagato.
Una volta giunti nella capitale, con 50 Nfa un taxi ci ha portato all’Africa Pension, da dove abbiamo iniziato la ricerca di una pizzeria (tanto per cambiare, dopo tutto quel pesce) che avesse della Coca Cola fredda, impresa che si è rivelata molto ardua: alla fine abbiamo deciso di tornare all’Hamasien Restaurant, dove ci hanno servito – oltre all’agognata Coca fredda – delle pizze alquanto indigeste.
Asmara, 24 agosto
Si torna a casa.
Mattinata trascorsa in giro per gli acquisti (giusto il solito ciondolo-ricordo e mezzo chilo di berberè per insaporire i miei piatti) e per vedere alla stazione il treno a vapore che mancava il giorno del nostro arrivo qui.
In realtà le locomotive sono almeno cinque, più una “littorina”, e i vagoni sono di quelli con panche di legno al posto dei sedili.
La manutenzione è affidata a dei vecchietti ottuagenari che sono gli stessi che lavoravano quando qui c’erano gli italiani, e che ora insegnano il mestiere ai più giovani.
Per acquistare un paio di libri sull’architettura di Asmara da parte di un tizio che gironzola intorno all’edificio della posta abbiamo deciso di cambiare pochi dollari, e a quel punto è successo il casino che ha quasi rischiato di compromettere la nostra partenza.
La tizia dell’ufficio cambio della Western Union su Harnet Avenue si è sbagliata e ci ha cambiato 33 dollari come se fossero stati 33 euro (differenza 177 Nfa, ovvero “ben” 8 euro).
Considerata la scarsa entità della somma cambiata, abbiamo dato sì e no un’occhiata all’unico documento che ci interessava, ovvero il modulo verde statale sul quale vengono segnati, via via, i cambi delle valute straniere dichiarate alla frontiera: risultava un cambio di 33 dollari, sicchè abbiamo incassato il tutto, siamo andati a comprare i libri, e siamo rientrati in albergo.
Qui il portiere ci ha informato che la tizia del cambio stava arrivando, perchè c’era stato un errore.
Quando è giunta, ci ha accusato di essere dei truffatori, e ci ha detto di tornare al suo ufficio cosa che abbiamo accettato senza problema, sperando solo di risolvere la faccenda in fretta perchè erano le 18,30 e alle 19,15 volevamo partire per l’aeroporto.
Aveva pure chiamato il marito per farsi dare manforte ma questo, vista la nostra completa e compassata disponibilità, non ha fatto altro che accertarsi del nostro ritorno ad Harnet Avenue e se ne è andato.
Nel frattempo la tizia ha continuato ad insultarci, rallentando di proposito l’operazione di sostituzione della ricevuta di cambio perché sapeva che avevamo fretta di andare all’aeroporto.
Preoccupato solo di sveltire la faccenda, non solo non ho fatto una piega di fronte all’accusa di essere un truffatore (per 8 euro, poi, cosa che sarebbe la più grave), ma ad un certo punto mi è pure toccato intervenire in difesa della rompicoglioni.
Un tale del posto, matto o ubriaco o tutt’e due le cose, era infatti entrato nell’ufficio pretendendo di cambiare in Nakfa 3 dollari avuti chissà come: al rifiuto della tizia, ha dato in escandescenze, ha aggirato il bancone e ha rovesciato il cassetto con i soldi.
Avrei volentieri visto rapinare la megera, ma non potevo permettere un ulteriore ritardo, sicché sono uscito in strada gridando “police, police!”, e provocando l’intervento di un tale che, armato di bastone, ha scacciato l’importuno.
Lungi dal ringraziare, la stronza ha continuato ad insultarci e a perdere tempo, finché ci ha consegnato la maledetta ricevuta e ci ha lasciato andare.
Cosa tocca sopportare quando si ha fretta e ci si trova in un Paese dove la giustizia chissà come è amministrata...
Altri 300 Nfa di taxi per l’aeroporto, e anche questo viaggio passa in archivio.
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Alla fine ho avuto quello che mi aspettavo.
Il Paese è bello, la gente abbastanza simpatica, il clima buono sull’altopiano (minima 9°, massima 25°) e caldissimo-umido al mare (almeno in agosto), il cibo niente male, il mare alle isole Dahlak strepitoso, i prezzi bassi (con esclusione delle gite con mezzi prenotati, carissime soprattutto per la scarsità di turisti).
Camminare per Asmara significa ritrovarsi a casa, soprattutto a causa dell’architettura: uniche differenze, il traffico stradale decisamente scarso e la popolazione di pelle nera.
Peccato non aver potuto visitare la Dancalia (e tanti altri posti) per espresso divieto governativo...
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LE “DRITTE”
Cambio (1 euro = 20 nakfa): all’aeroporto c’è uno sportello di cambio aperto h24; occorre dichiarare su di un modulo verde tutta la valuta straniera che si fa entrare in Eritrea, e su questo modulo verranno segnati tutti i cambi, in modo tale da far risultare, via via, di quanta valuta straniera si dispone.
Nessuno ci ha mai offerto di fare un cambio “nero”, anche perchè pare che la pena prevista sia di due anni (che si scontano in galera, non come da noi...).
Gli alloggi
Asmara – L’Africa Hotel per 180/200 ci ha dato una bella stanza pulita, ma senza colazione; peccato che i bagni in comune sui pianerottoli non siano veramente un granchè. L’albergo è vicinissimo ad Harnet Avenue, ma non tanto da farne sentire i rumori.
Senafe – L’Hotel Mama Roma è il meno peggio di una città pesantemente bombardata, per cui occorre adattarsi.
Massawa – Il Central Hotel, sull’isola di Taulud, non è pretenzioso ma è pulito (occhio, comunque, alle formiche!) e abbastanza vicino al ponte che porta all’isola di Massawa; il ristorante non è male, anche se il personale è leeeeento.
BUON VIAGGIO!!!