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HOLIDAY IN CAMBODIA (2001-2002)

© Alessandro Scarano 2002

Cambodia

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Phnom Penh, 27 dicembre

“In Cambogia? E che ci vai a fare in Cambogia?”
Questa domanda, accompagnata in genere da commenti poco entusiasti sulla mia sanità mentale, mi risuona nelle orecchie come una fastidiosa eco da quando ho messo al corrente parenti, amici e conoscenti della mia intenzione di intraprendere il prossimo viaggio nella vecchia Indocina.
Possibile mai che tutti sappiano che in questo Paese ci sono stati vent’anni di guerra civile ma ignorino i suoi splendidi siti archeologici?

Ad ogni modo, dopo un lungo viaggio via Bangkok, eccoci qui nella capitale (e più precisamente nella camera 501 dell’Hotel Champs Elysées, ampia, pulita, dotata di aria condizionata, frigo e TV: quando viaggio con Gianfrancesco mi “tocca” fare il signore...).

Mi sto godendo la partita Leeds-Newcastle, ma decidiamo che in fondo è il caso di fare una passeggiata serale per la città in cerca del bar Heart of Darkness, che la Lonely Planet consiglia ai suoi lettori.

Il giro a piedi, effettuato in un’atmosfera leggermente caldo-umida, ci ha per ora rivelato una città con strade asfaltate in rapporto alla loro ampiezza: più ci si allontana dai boulevard centrali, più il manto stradale diviene disconnesso (se non totalmente inesistente); sui marciapiedi stazionano svariate bancarelle che vendono frutta e spremute, oppure benzina in bottiglia; alcuni negozi danno l’impressione di essere aperti 24 ore su 24, in quanto i gestori dormono su brandine al loro interno, con la saracinesca aperta e la luce accesa; ogni tanto capita di vedere qualcuno che ha steso un’amaca tra un albero ed un muro di cinta, e così dorme “sopra” il marciapiede; l’illuminazione è molto, ma molto precaria, e alla fine l’Heart of Darkness – scovato in un vicolo – ci appare come un piccolo buco semideserto, che non spicca assolutamente rispetto agli altri (pochi) locali visti fino a lì.

Decidiamo di desistere, e di tornare in albergo in modo da essere operativi domani di buon’ora: ci attende la visita completa di Phnom Penh in un solo giorno.
Come da copione, il tassista che ci ha portato dall’aeroporto in albergo ci ha ripetutamente offerto ragazze, e per la strada questa sera un gruppetto di ragazzine (ma proprio “ine”!) ci ha rivolto degli “hello, I love you!” sui quali abbiamo ritenuto di non dover indagare vieppiù.

Il viaggio non ha molto pesato a livello di stanchezza, almeno finora: il 747 della Qantas era confortevole, e il 717 della Bangkok Airways che ci ha portato qui non ha fatto pesare le sue dimensioni più ridotte grazie alla brevità della tratta.

Considerando poco consono al posto ed al momento il Peppino De Filippo proposto da RaiSat, continuiamo a vedere trasmissioni sportive, ed assistiamo ad un clamoroso goal da centrocampo nel campionato thailandese: in Italia in portiere sarebbe stato lapidato all’istante dalla curva inferocita...


Phnom Penh, 28 dicembre

Grazie al gentile e servizievole personale del bureau dell’albergo siamo riusciti a vedere tutto il necessario: abbiamo “affittato” un ragazzo con un motorino che, per dieci dollari, ci ha portato entrambi (ebbene sì, sul motorino eravamo in tre, ma qui le norme della circolazione stradale, se esistono, vengono ignorate in nome di ben altre consuetudini...) a spasso per tutto il giorno; lo stesso portiere dell’albergo ha provveduto a stilare in khmer su di un foglietto la lista dei luoghi da visitare, e la ha consegnata al ragazzo.

Prima tappa, i famigerati “killing fields”.

Il campo di sterminio di Choeung Ek si trova a circa 18 km fuori da Phnom Pehn, al termine di una strada che, nella nostra comune memoria di viaggio, può trovare paragone solo con la terribile Baracoa-Moa a Cuba: interamente sterrata, con buche, fossi e sassi, ha provocato tre forature della ruota posteriore prima che il nostro “chauffeur” provvedesse a sostituire il suo più che vetusto mezzo, durante il viaggio di ritorno, con un altro leggermente più moderno e resistente.

C’è da dire che, in caso di foratura, il problema si risolve facilmente per la presenza, lungo la strada (strada?) di specie di bancarelle specializzate nella riparazione e vulcanizzazione di gomme: evidentemente, dato lo stato del fondo stradale, bucare è normalissimo.

Il campo di Choeung Ek lascia tristi: al centro è stato eretto uno stupa che ha al suo interno, ben visibili oltre le vetrate, più di 8.000 teschi ordinati per sesso e per età, nonché un mucchio di vestiti alla base; intorno, svariate buche nel terreno che erano servite come fosse comuni.

Per proseguire allegramente la giornata siamo poi andati a vedere quello che è ora il Museo Tuol Sleng, già scuola superiore Tuol Svang Prey, già carcere di sicurezza S-21, ovvero luogo di detenzione e tortura – nel periodo dei Khmer Rossi – di svariate migliaia di persone che, quando non trovarono la morte lì, furono poi portate a Choeung Ek; numerose foto illustrano come solo un’ingiustificabile follia possa aver creato una generazione di veri e propri mostri: avevo visto in televisione un servizio su questo luogo e quindi ero preparato, ma ho notato come alcune persone abbiano rinunciato a passare di sala in sala a veder le foto non solo delle facce dei detenuti, ma anche delle miserevoli condizioni in cui furono trovati quando il massacro finì grazie all’intervento vietnamita.

Successivamente siamo andati a far compere al cosiddetto mercato russo, una sorta di souk ove sono in vendita le cose più disparate, dall’artigianato ai CD alle vettovaglie: c’erano addirittura su DVD dei film non ancora usciti in Italia!
Ho acquistato due enormi stoffe di seta, un ciondolo d’argento, una maglietta, delle cartoline: se tutto va bene, mi rimane da prendere solo un libro di fotografie di Angkor o della Cambogia in generale, e poi avrò evaso la pratica “acquisti e regalini”.

Dopo il mercato è venuta la volta del Wat Phnom, tempietto sull’unica collina (pochi metri, comunque) della città, ove vengono venerate delle statue di Budda in legno che, secondo la tradizione, vennero trovate nel fiume da una contadina chiamata Penh (Phnom significa collina, per cui il nome della città significa “Collina di Penh”).

Ci siamo poi concessi un’oretta di pausa tra i tavolini di fronte al Wat Phnom, durante la quale Gianfra ha mangiato e bevuto, mentre io e il nostro... beh, chiamarlo “autista” forse è troppo, ma al momento non mi viene il termine adatto... vabbè, abbiamo solo preso qualcosa da bere, attendendo che i luoghi da visitare riaprissero dopo la pausa pranzo.

Siamo poi passati al Museo Nazionale ove, tra le altre notevoli antichità, ho ammirato soprattutto degli enormi tamburi di bronzo (!) di più di un metro di diametro (!!), risalenti al III-I secolo avanti Cristo e pregevolmente lavorati.

È stata infine la volta del Palazzo Reale (almeno del poco che è concesso visitare) e della Pagoda d’Argento, il cui pavimento è lastricato di tale elemento, e che contiene una statua d’oro del Budda, nonché quello che sembra essere il tesoro reale.

Dopo una foto in riva al Tonle Sap nel punto in cui si unisce al Mekong, fatta dribblando svariati ragazzini che per forza volevano essere immortalati con noi, abbiamo deciso che era ora di riposarci in albergo in attesa dell’uscita serale.

Durante la giornata abbiamo avuto modo di apprezzare anche lo stile architettonico di numerosi villini, alcuni ben ristrutturati, altri in stato fatiscente.
Tutto sommato l’idea del motorino è stata ottima anche se scomoda soprattutto per me, che non avevo altro posto per poggiare i piedi se non i bulloni del mozzo della ruota posteriore (crampi alle gambe a iosa): però ci ha permesso di visitare con poca spesa tutti i principali luoghi d’interesse, e il guidatore ci ha condotto attraverso il dedalo del mercato russo, tenendo a distanza – per quanto possibile, ovvero poco – i vari mendicanti.

Sui mendicanti: la gran parte di essi sono mutilati grazie alle mine, e si piazzano all’entrata dei luoghi da visitare nei pressi delle biglietterie, in modo da sfruttare il momento in cui uno deve mettere mano al portafogli; purtroppo però, grazie alla mancanza di qualcosa che valga meno di un dollaro nei suddetti portafogli, non è possibile dare una mano a questi poveracci, perchè alla fine sarebbe un salasso per il povero viaggiatore (a meno che non ci si procuri un pò di riel, utili anche per fare acquisti di scarso valore).

Dopo un meritato quanto indilazionabile riposino siamo andati a cena al Phnom Khiev 1, vicino all’albergo, dove per circa 7 dollari a testa abbiamo mangiato abbastanza bene pollo con funghi, pollo con ananas, e riso con gamberetti.

Siamo poi andati a piedi sul lungofiume, finendo al Foreign Correspondent’s Club, frequentato esclusivamente da “occidentali” (anche se c’erano un paio di giapponesi), aperto anche ai non giornalisti al contrario degli altri FCC sparsi per il mondo, dove in un ambiente “coloniale” abbiamo bevuto un drink (la Coca Cola era calda, uno scandalo, ma non ho osato utilizzare il ghiaccio) e ci siamo fumati un piccolo Cohiba a testa tanto per sugellare la nostra ultima serata a Phnom Penh.

Appollaiati su due sgabelli dinanzi ad una delle ampie finestre con vista sul fiume abbiamo apprezzato il locale accogliente, con vecchie poltrone in pelle e sedie di ferro con il logo FCC sullo schienale, fantasticando sul tipo di frequentazioni durante le numerose guerre che hanno martoriato sia la Cambogia che i Paesi confinanti.

Tornando in albergo ho fatto conoscenza ravvicinata con i topi locali: sono sbucati a decine, trenta centimetri più la coda, da un enorme mucchio di spazzatura lasciato sul marciapiede.


Siem Reap, 29 dicembre

Oggi sveglia alle 5 del mattino: una macchina prenotata a mezzo dell’albergo ci ha preso alle 6 e ci ha portato per 5 dollari alla barca per Siem Reap (il cui biglietto avevamo acquistato per 25 dollari sempre tramite lo Champs Elysées).

Sul pontile che porta alle barche c’è un cartello che invita a non entrare con armi da fuoco: mah...

La barca è grande e veloce, tanto da far patire un freddo cane a tutti i passeggeri che , come me, si sono sistemati sul tetto per godersi meglio lo spettacolo del viaggio ma non hanno provveduto a portarsi una felpa (quando ho realizzato la situazione era troppo tardi, e il mio zaino giaceva oramai in fondo al mucchio: il bello è che la Lonely Planet consiglia l’utilizzo di creme solari...); all’interno la situazione non era migliore, dato che – con grande gioia di Gianfrancesco, il quale ha scelto invece tale sistemazione – era in funzione un feroce condizionatore d’aria.

Lungo il fiume ho potuto vedere numerose abitazioni che, come da usanza locale, sono in realtà vere e proprie palafitte (le piogge da queste parti non devono essere uno scherzo...); la popolazione vive di agricoltura (molti aravano la terra con l’aiuto di bufali) e di pesca (quest’ultima viene effettuata a bordo di sottili piroghe a motore, principalmente con l’ausilio di reti (singolare l’uso, come galleggianti, di bombolette spray vuote).

Dal fiume si passa al lago, che ad un certo punto è talmente ampio da non far intravedere alcuna sponda.

Poco prima di arrivare all’imbarcadero di Siem Reap si passa attraverso un “villaggio galleggiante”, costituito da case-imbarcazioni, abitato da popolazione di origine vietnamita che pesca con i pellicani, ma riesce anche ad allevare maiali (tenuti pressati entro apposite gabbie-imbarcazioni).

La maggior parte del viaggio si è svolta con il cielo coperto da nuvole, cosa che ha estremizzato il freddo patito sul tetto, ma ad un certo punto è finalmente uscito un bel sole; non aspettavo altro: stanco per la levataccia, mi sono addormentato sdraiato sulle scomode assi di legno, ben rivolto verso quel sole il cui calore non si percepiva a causa del vento.
È bastata un’ora, e mi sono cotto a puntino: al mare dovrò prendere delle precauzioni per non tornare a Roma tristemente spellato.

Dalle assi che coprivano il tetto spuntavano numerosi chiodi, per cui alla fine in molti – me compreso – hanno avuto la sgradita sorpresa di trovarsi svariati buchi nei pantaloni.

La barca ha trovato una folla incredibile di ragazzi che agitavano cartelli con i nomi dei vari alberghi di Siem Reap; un bambino locale mi ha informato che la gran parte di essi non fanno affatto parte dello staff degli alberghi, ma in mezzo alla calca ho notato un cartello con su scritto “La Noria – Mr. Alessandro”: considerate le scarse probabilità della presenza a bordo di un altro Alessandro diretto allo stesso albergo (anche perché io e Gianfra eravamo gli unici italiani – una volta tanto! – in mezzo ad una popolazione cosmopolita: francesi, australiani – ovviamente! – giapponesi, inglesi, tedeschi, e dio solo sa cos’altro), mi sono fatto notare dal tizio, che ci ha condotti fino all’Hotel La Noria, da me prenotato via e.mail, attraverso una strada che dava i punti perfino a quella che va da Phnom Penh a Choeung Ek (fortunatamente più breve).
Il La Noria è un insieme di bungalow in muratura, tutti uguali ed arredati con gusto, ognuno con quattro stanze (piccoline, invero, e con dei letti dal materasso molto “solido”).

Mentre Gianfrancesco si riprendeva dal viaggio ho fatto una passeggiata per Siem Reap, che non si è rivelata per un posto degno di nota.

La cena al La Noria è stata soddisfacente; gli altri ospiti dell’albergo sono per lo più anzianotti, con l’eccezione di qualche rara coppia più giovane e di un paio di ragazzone che non meritano interesse alcuno: non vedo persone compatibili per una conoscenza più approfondita, ma il livello qualitativo del posto (e quindi i suoi prezzi) non si conciliano con un turismo giovanile dal budget molto limitato.

Sembra proprio che la sera non ci sia alcuna possibilità di intraprendere attività ricreative e/o socializzanti di sorta, per cui decidiamo di andare a dormire abbastanza presto per poter essere pronti domattina alle 8, ora dell’appuntamento fissato con due conducenti di motorino per un primo giro di templi.

Grazie al sole preso in barca ho la faccia rosso mattone: speriamo che l’aria condizionata (irrinunciabile vizio di Gianfra) non mi rovini l’abbronzatura!


Siem Reap, 30 dicembre

Oggi abbiamo avuto il primo impatto con il patrimonio archeologico cambogiano.
E che impatto!

Partenza alle 8 dopo la colazione, con due motorini (ma sì, un pò di comodità perbacco!): fatto il biglietto di accesso valevole tre giorni (40$), ci siamo recati per prima cosa a Kobal Spien, ovvero al Fiume dei Mille Linga.
Per arrivarci ci abbiamo messo circa un’ora: parte, inizialmente, su di una strada asfaltata che corre intorno ad Angkor Wat (il tempio più famoso)  e poi va verso la campagna, e parte su una pista in erra battuta che a volte presentava delle vere e proprie voragini alte anche un metro.

Per raggiungere il fiume, dal parcheggio di arrivo bisogna inoltrarsi per circa mezz’ora nella foresta: il “fiume” è in realtà un ruscello poco profondo, ma sul cui letto in pietra sono scolpiti, oltre a figure sacre e mitologiche, parecchi piccoli cilindri a forma tondeggiante, virili simboli della fertilità.

C’è anche una piccola cascata: tra le foto di rito non poteva mancare quella accanto alla cascata e, dopo essermi fatto ritrarre, ho a mia volta inquadrato Gianfrancesco che stava per mettersi in posa.

Una frazione di secondo dopo Gianfra è scomparso dal mio obiettivo: era finito – causa le viscide pietre  – con il sedere in acqua, tra gli sghignazzi di un piccolo gruppo di turisti locali; peccato, sono riuscito a riprenderlo solo mentre cercava di alzarsi, mancando per la mia sorpresa di immortalare nel pieno l’atletico gesto.

Da Kobal Spien siamo poi andati a Banteay Srei, bel tempio indù dedicato a Shiva e caratterizzato da notevoli bassorilievi.
Durante questo tragitto, neanche a dirlo, si è bucata la ruota del motorino che “ospitava” Gianfrancesco, e abbiamo dovuto proseguire in tre sul motorino superstite.
Usciti dal Banteay Srei abbiamo trovato la ruota riparata, e i nostri trasportatori dai nomi impronunciabili quanto impossibili da ricordare ci hanno condotto ad un altro tempio, il Pre Rup, con belle sculture leonine, dall’alto del quale si gode di un notevole panorama sulla giungla circostante.

Dal Pre Rup, tornando verso la zona dell’Angkor Wat, siamo andati al Bayon, passando sotto la notevole porta di Angkor Thom, città fortificata del tardo X secolo.
Meraviglia!
Già abbastanza soddisfatti di quanto avevamo visto nella giornata, siamo rimasti stupefatti inizialmente dal Bayon, e poi di tutto ciò che siamo riusciti a vedere lì intorno: Baphuon, Terrazza degli Elefanti, Phimeanakas.

Abbiamo scattato decine di foto, ma questi posti sono in realtà pressochè indescrivibili, e vanno assolutamente – e sottolineo assolutamente – visti nel corso della vita, poiché la loro maestosità, unita allo stile ed alla perizia nelle decorazioni, ne fanno un posto veramente unico al mondo, che non teme paragoni con qualsivoglia sito archeologico.
Lo splendore raggiunto dal popolo Khmer in quel periodo deve essere stato qualcosa di inimitabile.

Ma alla meraviglia, oltre al contributo dell’uomo, ha contribuito la natura.

Nella zona del Bayon si ode fortissimo, costante, il sibilare acuto prodotto da un immenso numero di grilli (almeno un monaco buddista asseriva essere tali) che popolano gli alberi del luogo.
Immerso in questa possente espressione sonora della natura il Bayon giace immoto, grigio, con le sue 54 torri adorne di più di 200 facce di Avalokitesvara che con imperturbabili espressioni controllava i sudditi del regno di Jayavarman VII nel XII secolo.
E il Bauphon, palazzo reale ora in restauro, e la Terrazza degli Elefanti, 350 metri di bassorilievi alti più di una persona, dalla quale il Sovrano-Dio assisteva alle parate militari, e il Phimeanakas, tempio che rappresenta il mitico Monte Meru (e dalla medesima difficoltà per quanto concerne la sua ascesa).
Considerata l’altezza media dei monumenti che abbiamo visitato, dobbiamo aver macinato chilometri solo salendo e scendendo scalini ripidi ed incomprensibilmente alti (data la scarsa statura dei cambogiani).

La sera ottima cena al La Noria: gamberetti, spiedino di pesce arrosto, gelato al cioccolato e ananas.

Dopo cena ha telefonato Ruggero, un amico di Gianfrancesco che vive a Singapore, il quale ci ha fatto sapere di essere giunto a Phnom Penh e che domani sarà a Siem Reap per trascorrere con noi il capodanno: gli abbiamo fatto riservare una stanza e lo incontreremo nel pomeriggio, al ritorno dal nostro giro (che domattina inizia alle 7,30!).


Siem Reap, 31 dicembre

Le nostre “guide” ci avvertono che per salire a Phnom Kulen, la montagna sacra del Paese, le Autorità chiedono il pagamento di ulteriori 20 dollari: non se ne parla, quindi propongono di portarci a Ben Mealea, un tempio che si trova a 50 chilometri da Siem Reap.

Partiamo.
All’inizio per qualche chilometro la strada è nuova, asfaltata e a due corsie: “E’ la strada che porta a Phnom Penh”, ci dicono.
Pensiamo: “Evviva, finalmente una strada comoda”...
Errore.
Ad un certo punto la strada finisce.

E diventa un interminabile sterrato costellato di pietre aguzze, dove ovviamente qualsiasi veicolo, passando, solleva nuvole di polvere.
Dopodiché si svolta a sinistra, e lo sterrato pietroso diventa pista in terra battuta, con una continua serie di dossi che a volte termina in un bel tratto di sabbia.

La gran parte dei motorini che girano da queste parti sono degli Honda simili per certi versi all’SH-50 che conosciamo in Italia, ma con cilindrata tra i novanta e i centodieci.
Questi solitamente hanno un sellino triangolare per il guidatore ed un lungo sellino rettangolare dietro, sul quale ho visto sedere anche più di tre persone.
Date le condizioni delle strade che percorrono tutti i giorni, il loro stato d’usura è notevole, ma per fortuna il medesimo stato delle strade limita di per se stesso la velocità dei mezzi.

Forse loro ci saranno pure abituati.
Noi no.

Sullo sterrato il motorino vibra intensamente, e le vibrazioni ti si ripercuotono dall’alluce alla mandibola senza interruzione.
Sulla terra battuta i dossi ti fanno rimbalzare sul sellino tutto il tempo.
Sulla sabbia corri il rischio di cadere, e talvolta devi scendere a spingere il mezzo.
Ma alla fine, dopo almeno 45 chilometri così percorsi in un totale di due ore e mezzo di viaggio, siamo giunti a Beng Mealea.

Innanzi al sentiero d’accesso il benvenuto: un cartello blu informa che sono in corso lavori di sminamento in zona (iniziati solo il primo agosto di quest’anno), e che è meglio seguire il sentiero od affidarsi a qualcuno del posto.

Scelta quest’ultima soluzione, dopo aver pagato 5 dollari per l’ingrasso, veniamo guidati attraverso parte di un edificio che ci dicono essere stato in origine grande quasi quanto Angkor Wat, ma ora maggiormente divorato dalla foresta rispetto a quello di Ta Phrom.

Intorno, paletti di legno bianchi indicano la zona “sicura”, all’interno della quale non si dovrebbero correre pericoli con le mine; tuttavia, in un paio di punti ci sono paletti rossi con la scritta “mina numero...”: abbiamo pensato che difficilmente sarebbero state lasciate mine attive all’interno di una zona bonificata, per cui quei segnali potrebbero anche essere stati messi lì per i turisti, a scopo “folkloristico”, ma non sarò comunque io quello che metterà un piede lì.

Ad ogni modo, c’è da dire che un “bassorilievo” inciso sulla terra (?) che ci ha mostrato la guida era a nostro giudizio palesemente falso.
Dati 5 dollari di mancia alla guida, siamo ripartiti tornando per la medesima via, affrontando sabbia, terra, sassi.

Le cattive condizioni della strada però non hanno che minimamente influito sulle particolarità del paesaggio che essa attraversava: le case sono tutte palafitte alte circa tre metri da terra, la maggior parte in legno, alcune in paglia, poche in muratura; ognuna di esse ha dinanzi a sè una o più grosse buche nel terreno destinate a contenere acqua, che a quanto pare è l’unica che utilizzano, ed in quest’acqua verde o marrone a volte giocano bambini, a volte grufolano maiali, a volte nuotano i bufali, a volte si coltivano fiori di loto: a volte tutte queste cose insieme; dinanzi ad ogni casa vi è anche almeno un’amaca di tessuto verde scuro, sulla quale c’è sempre qualcuno che si culla.

Nei campi ove vengono coltivate le piante di riso, ci sono pozze più grandi, nelle quali addirittura si pesca con la rete (tra i bufali ed i bambini).
Ed in mezzo a questo ambiente, con la gente che ti saluta sorridendo quando passi, avanzi coperto dalla polvere che si alza ogniqualvolta si incrocia un’auto od un camion: nonostante cappello, occhiali e bandana, ero ridotto ad una maschera di terra.

Tornando verso Siem Reap abbiamo girato a sinistra per vedere il cosiddetto “Gruppo Roluos”: è questo un insieme di tre templi più antichi, del IX secolo, situati a 13 chilometri da Siem Reap.
Abbiamo visitato prima il Preah Ko, composto principalmente di sei torri non molto alte, e comunque molto lontano dalla raffinatezza che ha contraddistinto il successivo periodo angkoriano; siamo poi passati al Bakong, dedicato a Shiva e rappresentazione – anch’esso – del Monte Meru: come da copione, abbiamo scalato il “monte”, giungendo in cima con le ginocchia dolenti; abbiamo poi evitato il Lolei, considerato troppo piccolo ed ininfluente, e ci siamo diretti ad Angkor Wat.

Angkor Wat è una storia a sè: è il più noto dei templi di qui, e la sua silhouette campeggia sulla bandiera nazionale.
Tanto per dare un’idea delle sue dimensioni, il fossato che lo circonda è un rettangolo lungo 1,5 km e largo 1,3 km.
Ovviamente, è sempre affollato di gente.

Abiamo deciso di fare solo un breve giro, con il proposito di tornarci domani con Ruggero, che a quell’ora – menter uscivamo da Angkor Wat – reputavamo essere arrivato in albergo e dedito al riposo: sul viale d’uscita del tempio, invece, c’era lui.

Visto che erano quasi le 5, abbiamo congedato i nostri guidatori di motorini e siamo andati con la macchina a disposizione di Ruggero fino alla collina di Phnom Bakheng, per ammirare dall’alto del tempio sito sulla sua sommità il tramonto su Angkor Wat, l’ultimo tramonto dell’anno 2001.

Naturalmente sul tempio in cima alla collina si erano arrampicati tutti i turisti presenti in zona; tra i turisti che si incontrano nei siti archeologici vi sono moltissimi asiatici, soprattutto thailandesi e giapponesi, che riescono a venire qui anche solo per passarci un weekend, grazie al locale aeroporto internazionale.
Visto il tramonto, a mio parere non eccezionale ma più che compensato dal bel panorama, siamo tornati in albergo in condizioni disdicevoli per la sporcizia; fatta la doccia e chiamati i parenti per gli auguri, cena di capodanno al La Noria, con spettacolo delle ombre e balletti dei bambini locali.
Alle dieci, tutto finito: qui del capodanno non frega niente a nessuno.

Usciti dal La Noria, ci siamo infilati nel Grand Hotel d’Angkor, un complesso spettacolare che si affaccia sul parco dei Lotus Gardens e le cui stanze vengono a notte 360 dollari (a mano che non si preferisca una delle due suites, a notte 1.900 dollari).
Con fare noncurante abbiamo letto il programma della serata, che si svolgeva a bordo piscina, e poi siamo entrati nella boutique interna, dove Gianfrancesco e Ruggero hanno acquistato un calendario con splendide foto di Angkor Wat in bianco e nero.

Torniamo al La Noria  a fare due chiacchiere fino alla mezzanotte (accolta con distacco: i nostri festeggiamenti sono consistiti in una stretta di mano accompagnata da un distratto “buon anno”), allorquando qualcuno nel giardino a fianco del bungalow dove eravamo ha fatto esplodere dei piccoli fuochi d’artificio, come quelli che siamo abituati a vedere durante le feste patronali, ma “versione bonsai”.
Curiosi di non sentire nulla dalla parte del Grand Hotel d’Angkor, abbiamo guardato il cielo in quella direzione, e con sorpresa abbiamo visto decine di fiammelle salire in alto: in pratica, delle piccole lampade-aerostato di carta che hanno costituito una novella effimera costellazione nel cielo di Siem Reap, Cambogia.

Buon anno!


Siem Reap, 1 gennaio 2002

Oggi ce la siamo presa quasi comoda.

Partenza alle 8 in macchina (essendo in tre, oltre che meno faticoso, è più conveniente) per Angkor Wat, che Ruggero in pratica non aveva ancora visto.
A differenza di ieri, considerato il giorno e l’ora, era semideserto, e ne abbiamo approfittato per scattare altre foto e vedere per bene i bassorilievi all’interno del corpo centrale.

Abbiamo fatto due chiacchiere con Roberta, bella quarantunenne da Forlì, in giro con un gruppo di vecchietti francesi (uno addirittura settantacinquenne!) e desiderosa di parlare italiano per un pò; ci ha narrato delle loro escursioni nel nord della Cambogia, dove hanno a volte dormito sulle amache, per vedere posti interessanti però solo dal punto di vista di un etnologo.

Tra un bassorilievo e l’altro ci siamo spesso seduti a riposare, visto che nei giorni precedenti non eravamo stati fermi un attimo.

Da Angkor Wat ci siamo trasferiti a Ta Prohm, tempio invaso dalla foresta, ove la natura ormai la fa da padrona; lo scenario è molto suggestivo, con enormi radici che inglobano gli edifici, ma secondo noi il Beng Mealea offre più un’atmosfera alla “Indiana Jones”.

Di fronte al Ta Prohm ci siamo fermati per mangiare qualcosa: in genere non pranziamo, ma Ruggero – che ormai possiede anticorpi da combattimento grazie alla lunga permanenza nel sud-est asiatico – ci ha convinto a sederci ad uno dei tavoli serviti da cucine poste in piccole capanne; il cibo non era male ma io, che già dalla mattina non mi sentivo molto per la quale, ho voluto/dovuto approfittare subito del bagno pubblico sito sul piazzale.

Avete presente un bagno pubblico in Cambogia?
Per fortuna la scorta “enterogermina+bimixin” è fornita...

Siamo in seguito andati a sdraiarci sul prato innanzi al Bayon, che volevamo assolutamente rivedere, e io e Ruggero ci siamo con flemma fumati un sigaro (lui è un patito del toscano, sigaro “da passeggio” che può essere spento e poi riacceso, io del cubano, sigaro da “meditazione statica”, la cui riaccensione è considerata un delitto: due mondi diversi...).

Ripetuto, più approfondito, il giro del Bayon, io e Gianfrancesco eravamo allo stremo delle forze (si tratta sempre, nei templi visitati, di salire e scendere enormi e ripidi gradini, per cui alla fine anche un fisico allenato ne risente), ma abbiamo accompagnato Ruggero a vedere Terrazza degli Elefanti, Terrazza del Re Lebbroso, e Phimeanakas (ma senza salire su quest’ultimo, per carità!).

Dopo cena abbiamo salutato Ruggero, che si tratterrà un altro giorno prima di tornarsene a Singapore, abbiamo preparato i bagagli e siamo andati a dormire presto: domattina sveglia alle 4,30, la macchina ci verrà a prendere alla 5,30, la barca partirà alle 7,00.


Sianoukville, 2 gennaio

Sono finalmente sdraiato su una spiaggia!

Il viaggio, dati gli orari, è stato un pochino stancante: arrivati a Phnom Penh abbiamo trovato una macchina che per 30 dollari ci ha portato qui, ove alloggiamo all’Hotel Seaside (che la Lonely Planet sapccia per essere il migliore in zona) per 25 dollari a notte, colazione compresa.
Stanza grande, TV satellitare (ma senza la Rai), frigo, aria condizionata.
Gianfrancesco è crollato e dorme della grossa sulla sabbia nonostante l’immancabile chiasso di bambini locali e non.

La spiaggia non sembra male, anche se non è eccezionale: la sabbia è bianca e fina (e quando la si calpesta fa un rumore simile a quello degli scarponi sulla neve), non c’è folla; l’acqua è calda, ma data la luce dell’ora pomeridiana non sono per ora in grado di giudicarne la limpidezza; domattina vedremo, intanto ragiono sul fatto che per orientamento geografico il posto è simile ad Ostia, per cui mi sento decisamente a mio agio con il sole che sorge alla mia sinistra e tramonta a destra.

Ceniamo al Sea Dragon, sulla stessa strada dell’albergo, di fronte al mare: provo una specialità locale al granchio, ma la zuppa che mi arriva non mi convince e ne assaggio solo un pò.

Passeggiamo sulla riva deserta, con l’eccezione di un fuoco intorno al quale siedono quattro giovani “bianchi”, e teorizziamo lungamente sulle possibilità di vedere a questa latitudine l’Orsa Minore con la Stella Polare: abbiamo rischiato il torcicollo, ma di fatto non si vede; abbiamo inoltre entrambi convenuto che la strada da Phnom Penh a qui era ottima, ma durante il viaggio nessuno di noi avrebbe – per scaramanzia – fatto notare una cosa simile.

Dopo le fatiche imposte da orari e trasferimenti disagevoli, abbiamo ora il tempo di riposare e meditare.


Sianoukville, 3 gennaio

Oggi sono sceso in spiaggia alle nove, dopo aver fatto colazione con pane, burro e marmellata; con una certa perplessità avevo letto nel menu che offriva il nostro albergo dei piatti tipici locali che noi ci sogneremmo di mangiare solo a pranzo o a cena: una colazione con noodles al pollo... puah!

La spiaggia, che si chiama Ochheuteal e si trova proprio davanti all’albergo, era semideserta, e anche nel momento della giornata in cui si è verificato il massimo affollamento ha consentito ad ognuno di mantenere un più che adeguato “spazio vitale”.
Pochi gli italiani, ma discreti (una volta tanto, niente casino).

A causa di una brezza fresca persistente il sole sembra non far sentire più di tanto la sua potenza... ho però reputato opportuno passare il pomeriggio sotto l’ombrellone ed in maglietta, mi sa che qui ci facciamo del male!

Sulla spiaggia si può prendere per un dollaro al giorno un ombrellone con le sdraio ed un tavolino, cose delle quali non si può fare assolutamente a meno.
Passano in continuazione bambine che vendono ananas, piccoli cocomeri, papaie, banane, e poi bambini che vendono snacks e patatine, e poi signore e ragazze che vendono roba simile alle mazzancolle, e ci sono inoltre bancarelle che vendono da bere e da mangiare.

Fuori invece c’è un assedio da parte dei conducenti di motorini che insistono per portarti da ragazze, in un ristorante, su un’altra spiaggia, e tu che devi solo attraversare la strada per andare in spiaggia o in albergo ripeti come una macchinetta “No, thank you, I’m just going there, yes, maybe tomorrow, if I will still be alive, I don’t know...”.

Ad ogni modo, l’acqua è limpida, e se non fosse che i locali non tengono molto alla pulizia del posto e per il fatto che ci sono delle fastidiose pulci della sabbia, si starebbe ancora meglio di così (già una favola).

La sera il luogo non perde affatto di suggestività: dopo aver cenato – bene – al Les Feuilles, ristorante di una guest house nelle vicinanze, abbiamo allungato la passeggiata sulla spiaggia fino ai localini che si trovano in fondo a destra, guardando il mare (questo tratto di spiaggia è chiamato Serendipity).

Poca gente (e siamo in altissima stagione!), piccolo fuoco, musica reggae: il tutto unito ad una notte stellata e alle luci delle barche dei pescatori (ne abbiamo contate 20) in mare: che pace, che bello!


Sianuokville, 4 gennaio

In spiaggia ho preso lo stesso ombrellone-tavolino-sdraio di ieri: ci sono intorno le stesse cartacce di ieri e la stessa bottiglia di birra rotta di ieri, e hanno voluto un dollaro come ieri.

C’è in più un gruppo di gitanti locali venuti dalla capitale, e tre di essi, staccatisi dagli altri, sono venuti a pisciare sulla riva proprio davanti a me.
Vabbè, rispettiamo le usanze locali...

Oggi tira meno vento, e il sole picchia con forza: cercherò di stare all’ombra il più possibile, tanto sembra che qui per abbronzarsi basti il riverbero della sabbia e del mare.
Nuoto più del solito, anche perchè devo pur mantenere un minimo di forma fisica.

Le ragazze cambogiane fanno il bagno completamente vestite: maglietta, reggiseno, pantaloni, a volte pure le scarpe; per la maggior parte del tempo stanno a mollo utilizzando come canotto/salvagente (nessuna di loro sembra essere una buona nuotatrice) na camera d’aria da camion gonfia.

Curiosa scenetta durante la mattinata.

Lungo la spiaggia c’è anche una scuola di addestramento della gendarmeria reale, e capita di vedere gente in mimetica passare sulla riva oppure per la strada (qui inquadrati, cantando durante la marcia o la corsa).

Un gruppetto di quattro gendarmi in mimetica è passato, sulla riva, accanto ad un bambino francese biondo che dimostrava non più di quattro anni.
Il bambino era completamente chinato in avanti dentro una grossa buca che aveva scavato nella sabbia.
Il più grosso dei quattro, per scherzo, con due dita gli ha tirato delicatamente giù il costume, lasciandolo a sedere bianco per aria.

Reazione del bambino francese: un minuto intero per realizzare, e poi scoppio di pianto, mentre la madre sotto l’ombrellone se la rideva, come noi.
Nel frattempo il gruppo in divisa è giunto nei pressi di alcuni bambini locali che giocavano con le camere d’aria.
Una bambina era a terra e gli altri ragazzi minacciavano per gioco di tirarle addosso le suddette camere d’aria.

I gendarmi le hanno prese di mano ai ragazzi e hanno – gentilmente – sommerso la bambina sotto un cumulo di gomma.
Reazione della bambina cambogiana: prende immediatamente una manciata di sabbia e la tira a quello più grosso, che sembrava essere il capo, il quale ride per primo.
Sollazzo generale.

Abbiamo comprato un’ananas da una delle bambine sulla spiaggia: buono!

Aperto ed affettato sotto i nostri occhi con maestria da una bambina che avrà avuto neanche dieci anni.

Il sole continua a picchiare anche nel pomeriggio.

Questo caldo secco che ci ha accompagnati dall’inizio del viaggio (fatta eccezione per la prima sera a Phnom Penh) è più che sopportabile; anzi, nel primo mattino, alla sera, e – assolutamente – durante il viaggio sul Tonle Sap, una felpa pesante si è rivelata più che utile, ma il sole cuoce, e anche io devo prendere la precauzione di cospargermi il naso con una crema “schermo totale”.

La sera, crepi l’avarizia, cena da Chez Claude, il che significa farsi portare in motorino sulla cima di una collina che domina il Golfo del Siam (ma dalla quale, a causa del buio, si vedevano solo le luci delle barche da pesca), passando accanto alla sinistra sagoma dell’Indipendence Hotel, enorme complesso alberghiero abbandonato che si trova a Sokha Beach.

La cena è stata ottima, e con ingordigia mi sono buttato su una specialità della casa, il “Saint Pierre”, filetto di pesce in salsa di vino bianco: veramente buono, ha – quasi – giustificato il conto di 25 dollari per uno.

Dopodichè altra passeggiata sulla spiaggia fino ad un localino di Serendipity Beach, parte estrema di Ochheuteal Beach.


Sianuokville, 5 gennaio

Siamo ancora qui a goderci questa spiaggia e questo mare, perennemente calmo; non ci sarà la barriera corallina, non ci saranno moltitudini di pesci, non ci saranno quantità di belle ragazze, ma per noi è ugualmente un paradiso, ed anche oggi, che è sabato, il concetto di “folla” rimane sconosciuto da queste parti.

Abbiamo notato come non solo alcuni attempati signori, ma anche trenta/quarantenni, siano andati a ricorrere al sistema della “fidanzatina”, molto in voga nel sud-est asiatico: questo consiste nell’affittare (mi si perdono il termine) una fanciulla, generalmente moooolto giovane, per l’intera durata della vacanza.

E così si vedono in giro queste improbabili coppie che, per differenza d’età, sembrerebbero a volte padre e figlia.
In paesi così poveri ci si può permettere anche questo...

Sulla povertà della gran parte dei cambogiani non si discute: soprattutto fra la popolazione rurale si tratta di una povertà assoluta, nella quale l’abitazione consiste in una palafitta (ovviamente senza luce e servizi igienici), e le uniche proprietà possono essere costituite – talora – da vacche, bufali o maiali; di acqua corrente, neanche a parlarne.

A Phnom Penh e a Siem Reap, come pure a Sianoukville, la maggior parte delle case sono in muratura, ma sono asfaltate solo le strade principali.
Per strada si trovano spesso mucchi di spazzatura, e la stessa spiaggia di Ochheuteal non è completamente ricoperta di avanzi di cibo solo per lo scarso numero di persone che la frequentano, nonché per il lavoro svolto da uccelli ed altri non identificati animali (date le orme che si vedono sulla sabbia la mattina presto).

Oggi c’è meno foschia al largo, e si vedono ad occidente le coste della Thailandia.

Abbiamo comprato un altro ananas dalla stessa bambina di ieri, ma meno buono; questo rimane il nostro pranzo, come ieri; conveniamo sul fatto che a Roma sarebbe impossibile pranzare con mezzo ananas a testa, ma d’altronde la nostra unica attività qui è camminare dall’albergo alla spiaggia e viceversa.

La sera ritorniamo al Les Feuilles, dove mangio un ottimo manzo al curry, piccante ma notevole.

La passeggiata serale ci ha condotto nuovamente alla spiaggia di Serendipity.

È la nostra ultima notte in Cambogia.


Sianuokville / Phnom Penh, 6 gennaio

Oggi si parte, la pacchia è finita.

Ci concediamo un paio d’ore a Serendipity Beach per integrare l’abbronzatura e fare un ultimo bagno.
Alle 13 una macchina ci porterà all’aeroporto di Phnom Penh, dove prenderemo il volo delle 19,50 per Bangkok: quattro ore di attesa all’aerostazione e poi torneremo a casa con il volo Qantas che dovrebbe atterrare a Roma lunedì 7 alle 7,00; mi aspetterà una lunga giornata di lavoro... ma per ora penso solo ad impregnarmi di questo ultimo sole cambogiano, tanto per far scatenare le invidie di chi è rimasto a Roma a contare i gradi sottozero.

Sono anche queste le piccole soddisfazioni che uno deve togliersi finché vive... e se lo può permettere!

Siamo giunti all’aeroporto di Phnom Penh con quattro ore di anticipo sul volo per Bangkok, e mi tocca far fruttare l’esperienza consolidata in materia di far passare il tempo aspettando.

Si lascia il Paese, è il momento dei bilanci e delle riflessioni.

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I posti che abbiamo visto mi hanno più che soddisfatto, ed il clima è stato perfetto.
Non abbiamo mai avuto problemi di sicurezza, quanto a criminalità, anche perché da una parte devono aver capito che il turismo sarà la svolta economica della Cambogia, e dall’altra finire in una galera qui deve essere un inferno.
La popolazione è gentile, sorride quando la incontri per la strada, e sono in parecchi a conoscere almeno i rudimenti della lingua inglese (ciò soprattutto, ritengo, per la presenza costante, dappertutto, di scuole di lingua).
Abbiamo notato che una fascia di età della popolazione è quasi inesistente, ed è quella degli over 40: non ce ne sono, soprattutto gli uomini, e se sia dovuto al fatto che i Khmer Rossi hanno massacrato quasi tre milioni di persone non possiamo dirlo con certezza.
In compenso ci sono moltissimi bambini, che già da piccolissimi si danno da fare (nelle campagne o nei siti archeologici o sulle spiagge) per assicurare la loro esistenza e quella della propria famiglia; qui tutti si danno da fare, veramente, ma l’infanzia per i piccoli cambogiani è un periodo particolare, dove i giochi con i coetanei vengono solo dopo il lavoro.
Abbiamo incontrato bambini di neanche cinque anni che parlavano inglese, conoscevano il valore del denaro (riel e dollari), e passavano la giornata camminando su e giù per la spiaggia tenendo in equilibrio sulla testa cesti di frutta, snacks, e gamberi.
Per qualsiasi cosa dovesse occorrere, basta chiedere ai ragazzi in motorino fuori dagli alberghi: auto, consigli su posti da vedere, donne, erba, loro rimediano tutto.
In attesa di altri capitali esteri, per il momento, il turista è la loro unica risorsa e fanno in modo che sia pienamente soddisfatto.
Ma la Cambogia va visitata ora. Subito.
Già a Siem Reap stanno edificando decine di alberghi, alcuni immensi, ed hanno aperto nella foresta una strada che, quando sarà asfaltata, porterà alla “citta degli alberghi” attualmente in costruzione.
Le poche migliaia di stranieri che oggi visitano il Paese diventeranno “gruppi vacanze” di tali dimensioni da rendere impossibile una tranquilla visita ai monumenti (il 1° gennaio ad Angkor Wat saremmo stati non più di una trentina).
Per quanto concerne il clima, tutte le guide sostengono che il periodo migliore del’anno sia questo qui, a cavallo tra dicembre e gennaio: non possiamo che confermare, anche se non sappiamo quando finisca la stagione secca e quanto duri quella umida; certo è che se qui le case sono in gran parte palafitte collocate ad almeno tre metri di altezza la situazione acqua/fango non deve essere delle più piacevoli...
L’idea di tornare a casa il 7 gennaio, sapendo che la temperatura massima a Roma è di 8 gradi (che di notte scende a –3!) non ci solletica affatto, e se pensiamo che fino a qualche ora fa eravamo sbracati a Serendipity Beach ci viene da chiedere “A Roma? E che ci andiamo a fare a Roma?”.

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LE “DRITTE”...

Guida consigliata – La Lonely Planet si è rivelata all’altezza (come al solito), anche se l’edizione 2000 risulta già datata in un Paese che cresce e cambia di giorno in giorno.

Cambio – Si adoperano due valute, dollari e riel: i primi per le spese principali ed i secondi per bevande, piccoli pasti e mance.

Prenotazioni – Nessun problema sia via e-mail che via fax.

Strade – Note come le peggiori dell’Asia, non mi faranno più lamentare delle buche di Roma; unica eccezione, quella che porta da Phnom Penh a Sianoukville, asfaltata e scorrevole (salvo qualche rara ma inevitabile buca).

Trasporti - Dall’aeroporto di Phnom Penh il taxi per la città ha un prezzo fisso di 7 $; la barca veloce sul Tonle Sap costa 25$ a viaggio, e ci mette 5 ore da Phnom Penh a Siem Reap (4 ore il percorso inverso): portarsi assolutamente giacca e felpa; fuori da ogni albergo non mancano mai ragazzi con motorini (trattare sul prezzo), che possono rimediare anche un’auto; un passaggio in macchina da Phnom Penh a Sianoukville (o viceversa) può costare intorno ai 25$; ci sono anche pullman, più economici delle auto nel caso si viaggi da soli.

L’itinerario – Arrivando da Bangkok direttamente a Siem Reap per poi ripartire da Phnom Penh si può evitare di fare avanti e indietro con la capitale, come invece abbiamo fatto noi perdendo mezza giornata

Gli alloggi

Phnom Penh – L’Hotel Champs Elysées Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. per 20$ ci ha dato una bella stanza pulita, con frigo e TV satellitare ma senza colazione; nessuno ci ha rifatto la stanza, ma al bureau sono organizzati e servizievoli.

Siem Reap – L’Hotel La Noria Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. è rinomato per il rapporto qualità prezzo: ogni bungalow in muratura ha quattro stanze (due al piano terra e due sopra), non eccessivamente grandi, senza televisore e frigo ma con aria condizionata; il ristorante è buono, e la stanza doppia a mezza pensione costa 65$ (accettano carte di credito).

Sianoukville – L’Hotel Seaside (fax 034.933640) passa per essere il migliore, ed è comodo perchè di fronte alla spiaggia; la stanza doppia (simile a quella dello Champs Elysées) costa 25$ compresa la colazione (non accettano carte di credito). A Sianoukville c’è anche l’Hotel Crystal (accanto al Seaside, moderno ma con le stanze più piccole) e numerose guest house che possono costare fino a 3$ per la stanza singola e 5$ per la doppia (ma c’è chi si è lamentato delle condizioni igieniche, ritrovandosi pieno di morsi di insetti...). Non dimenticare di leggere la gratuita Sianoukville Visitors Guide.
BUON VIAGGIO!!!