© Alessandro Scarano 2007
Muscat, 24 dicembre 2006
Anche quest’anno sono riuscito ad evitare di passare l’aborrito periodo natalizio a Roma.
Due settimane in Oman con avventure nel mondo, oramai eletta a rifugio di emergenza per viaggi decisi all’improvviso – come in questo caso – o che avrei potuto affrontare da solo, cosa che finora ho avuto modo di apprezzare solo parzialmente.
Siamo arrivati a Muscat alle 2 di notte, dopo due voli con la Turkish via Istambul (erano anni che non mangiavo così male su di un aereo).
Il Naseem Hotel è molto in “stile avventure nel mondo”, anche se sembra più pulito rispetto alla media.
Andati a dormire alle 4, non solo alle 5 siamo stati svegliati dal muezzin come in ogni Paese islamico che si rispetti (e questo lo si sapeva), ma alle 6 dall’altoparlante della scuola vicina sono anche risuonate le note dell’inno nazionale, cantate (pure!) in coro dai bimbetti: risultato, non si è dormito un granché.
L’albergo non passa la colazione (quanto meno, non è compresa nel prezzo della stanza), per cui è tornata utile la mia consueta scorta di cornetti e biscotti.
Una prima passeggiata mi ha portato al mercato del pesce ed al suq (solita roba che si trova in tutti i mercati mediorientali, fatta forse eccezione per gli incensieri).
Nel pomeriggio ho invece camminato a lungo dal quartiere portuale di Mutrah, dove alloggiamo, fino a quello di Muscat, dove ho visto (da fuori) il palazzo del sultano, situato innanzi una piccola baia, e visitato il Bayt Az-Zubair, interessante e ben tenuto museo che contiene oggetti di artigianato locale e fotografie del Paese scattate nel corso degli anni, che illustrano il suo sviluppo (oddio, sembrava meglio prima...).
Tornato in taxi, ho dovuto litigare con il tassista, il quale prima ha chiesto un prezzo esoso (5 rial, ovvero 10 euro), e poi ha anche cercato di fregarmi sul resto.
Cena al New Arsalan, ristorante indiano nel quartiere commerciale di Ruwi; tutto piccantissimo, per cui non saprei dare un parere attendibile sul gusto del cibo, ma in 11 abbiamo speso 20 rial (40 euro).
Per muoverci abbiamo utilizzato dei taxi collettivi, pagando all’andata 3,50 rial per tutti, e al ritorno 100 baisa per uno, che pare essere la tariffa “ufficiale” in uso per la popolazione locale.
Salalah, 25 dicembre
Stamattina aereo delle 10,40 per Slalalah, città costiera nel sud del Paese.
Troviamo all’arrivo un vento forte ed un cielo non proprio cristallino, per cui capisco subito che – almeno oggi – di mare non se ne farà.
Abbiamo a disposizione un pullmino con autista (Said), che ci porta al Salalah Hotel, albergo frequentato anche da omaniti e gestito da indiani (a modo loro, naturalmente: le stanze non sembrano male – scarafaggi a parte – ma i bagni fanno abbastanza schifo, e i sanitari sono pure “made in england”...), per cui qualcuno si lamenta.
Il resto del gruppo non sembra avere un’idea precisa sul cosa fare, dove andare, e cosa c’è da vedere, per cui chiedo a Said di portarci (per non perdere tempo prezioso da dedicare alla spiaggia l’indomani) al vicino sito archeologico di Al Balid.
Non che ad Al Balid sia rimasto un granché, ma l’annesso piccolo museo è strutturato con molto buon gusto, e possiamo notare come la gestione delle cose statali strida ferocemente per qualità con quella delle imprese private affidate agli indiani.
Said mi racconta che l’Oman ha 2.500.000 di abitanti, più 1.300.000 immigrati indo-pakistani (come se noi avessimo trenta milioni di extracomunitari), che forniscono la vera forza lavoro, anche se con il loro stile precipuo.
Vengo anche a sapere che il sultano Qaboos è molto benvoluto, e che se qualche cittadino ha un problema (denaro, bisogno di cure all’estero), basta scrivergli una lettera e consegnargliela durante uno dei frequenti giri che il sultano fa nel Paese, e lui risolve tutto.
L’Oman esporta petrolio, gas, datteri, banane e pesce, ed avendo una popolazione così ridotta si riesce facilmente a far vivere bene tutti: sanità ed istruzione gratis, nessun mendicante per strada.
Altra particolarità del Paese è l’abbondanza d’acqua: per quanto possa sembrare strano, visto che siamo nella penisola arabica, molte sono le sorgenti, e difatti si nota tantissimo verde in giro, dalle estese aiuole verdi ai lati delle strade principali (addirittura punteggiate da chilometri di petunie!) ai numerosi palmeti e bananeti.
Sulla via del ritorno verso Salalah abbiamo incrociato dei pescatori che trascinavano le reti piene a riva, per la gioia dei gabbiani e per la nostra, visto che siamo rimasti almeno mezz’ora a fare fotografie.
Siamo poi passati al vecchio suq di Salalah, dove ho comprato una buona quantità d’incenso (in fin dei conti, già dall’antichità veniva esportato da qui) ed un incensiere di terracotta.
Ci siamo fermati a mangiare al Bin Ateeq, ristorante tradizionale omanita che fa parte di una catena con tale nome, dove io ho mangiato benissimo delle specialità locali, mentre altri si sono lamentati per essere incappati in piatti non di loro gusto.
Salalah, 26 dicembre
Oggi, tanto per cambiare, ho (ri)cominciato a sentire il peso del viaggiare con un gruppo, soprattutto quando ho la sensazione che certa gente non abbia la benché minima idea di cosa sia venuta a fare e a vedere proprio qui.
Siamo finiti, come prima tappa, a vedere una dolina in stile carsico a Taiq.
Ovviamente, contando di andare al mare, molti di noi non erano attrezzati per una camminata tra le rocce per scendere a metà della dolina, ma ho fatto anche questa grazie ai (o nonostante i) miei sandali, oramai un pò provati dalle prove estreme cui li sottopongo dal 2003.
Ci siamo poi diretti al sito archeologico di Khor Rori, corrispondente all’antico porto dal quale partiva l’incenso per l’universo mondo conosciuto.
Pochi sassi anche qui, ma una bella baia dove – finalmente! – sono riuscito a fare un tuffo, sfruttando maschera e pinne.
Contando di trovare spiagge migliori, siamo ripartiti in direzione di Mirbat, cittadina senza particolari attrattive, per cercare una buon posto dove fare un bagno.
Dopo aver perso tempo prezioso per il pranzo di alcuni del gruppo (è inverno anche qui, e le ore di sole sono pochine: dopo le 15 occorre rivestirsi) e per la scarsa conoscenza del concetto di “bella spiaggia” di Said, siamo finiti – non si sa perché, con tanti km di costa immacolata a disposizione – su di un tratto di litorale dinanzi ad un mega resort in costruzione.
Il posto, peraltro, non si presta minimamente a fare il bagno per il fondale scoglioso che si protrae per decine di metri verso il largo, ma pare che nel resto del grupo a ben pochi interessa nuotare e prendere il sole, per cui...
Tornati a Salalah dopo una breve sosta a Taqah, dove ho avuto modo di levarmi i sandali e mettermi a giocare scalzo a pallone per strada con dei ragazzetti locali (quando vedo un pallone non so resistere...), siamo andati al mercato del pesce per comprare tre ricciole da cucinare, cosa che abbiamo fatto “al brecciolino”.
Qui la gente ama fare il picnic ai bordi delle autostrade (?), e a volte si trovano “punti di ristoro” che consistono in una tenda, qualche tavolo con sedie, una tettoia con dei pezzi di carne appesi, ed un “barbecue” formato da un primo strato di pietrisco, un secondo di legna, ed un terzo ancora di pietrisco, sul (e dentro) il quale si cucina il cibo.
Considerato che il pesce l’abbiamo pagato 9,90 rial, che al tipo del barbecue abbiamo dato 10 rial, e che la spesa al supermercato (fornitissimo!) per condimento, stoviglie e bevande sarà stata di circa 9 rial, il tutto ci è costato più o meno 6 euro per uno: un pò caro per gli standard locali, ma il pesce, ad ogni modo, è venuto buonissimo.
Salalah, 27 dicembre
Oggi giornata di mare.
Dopo una breve visita alla Tomba di Giobbe, niente di particolare (e nemmeno un buon panorama, a causa della foschia), siamo scesi verso la spiaggia di Al Mughsayl, lunga, sabbiosa, con un pò di roccia vicino alla riva, con un mare leggermente mosso e – quindi – non limpidissimo, dove ho comunque potuto vedere qualche pesce (ma nulla a confronto con quel che ho visto nello Yemen, non lontano da qui).
Al ritorno siamo passati – non si sa perchè – per il porto commerciale di Salalah, dove l’unica cosa degna di nota è stata una grossa imbarcazione stipata di capre.
A cena ho lasciato andare gli altri al ristorante, mentre io mi sono diretto verso un internet point (mezz’ora, 400 baisa) per scaricare la posta e vedermi i goal dell’Inter contro l’Atalanta (incredibile, è riuscito a segnare Adriano!), comprando un panino shwarma all’andata e uno al ritorno in una tavola calda libanese (300 baisa l’uno).
Muscat, 28 dicembre
Quasi una giornata persa.
Sveglia con comodo e passeggiata per Salalah (il volo è previsto per le 10,40), ma c’è stato un ritardo di due ore, che ho trascorso isolato dal resto del mondo grazie all’iPod ed alle parole crociate, oltre che alla lettura de “I Misteri di Roma” di Corrado Augias.
Arrivati all’aeroporto di Muscat, prendiamo 3 taxi (7 rial l’uno) per il Naseem Hotel, concedendoci un altro giro per il suq, dove rimedio l’ennesimo ciondolo-ricordo, una piccola jambiya d’argento con il suo bel fodero decorato.
Cena al New Restaurant, pretenzioso nome con il quale si presenta una tavola calda pakistana di fronte al mercato del pesce, pesce che – incredibilmente – stasera il ristorante non ha (pare che gli omaniti non siano grossi consumatori di pesce, a dispetto della quantità che ne possono pescare, ma lo esportano verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi).
Rimedio con del pollo alla brace, piccante e buono.
Sohar, 29 dicembre
Prendiamo possesso dei nostri mezzi di locomozione per i prossimi giorni.
Mi metto alla guida di un Toyota Land Cruiser 4500 benz a sei cilindri, un mostro gigantesco che mi fa subito capire perché chi ha un fuoristrada del genere in Italia guida in un certo modo (ovvero come uno stronzo che se ne frega di chi capita sulla sua strada): lassù ti senti veramente invincibile.
Mi alternerò alla guida con uno dei partecipanti, mentre l’altra jeep “ammiraglia” verrà guidata dal solo autista Jamal, un sudanese che ci farà da guida.
Puntiamo su Barka, sulla costa a nord di Muscat, e al suo mercato del pesce.
Oggi iniziano i festeggiamenti per l’inizio della settimana dell’Hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, e c’è parecchio movimento: domani verranno sgozzate le vacche, la cui carne verrà condivisa tra amici e parenti, ma anche nella locale macelleria ci si sta dando fa fare.
Passiamo a Nakhal, e al suo forte che domina l’oasi dall’alto, e poi ad Al Towarah, dove si trovano delle fonti di acqua calda ove sguazzano famiglie intere.
Cominciamo poi ad addentrarci nella profonda gola dell’Wadi Bani Afw, proseguendo nel letto del fiume in secca: i grossi fuoristrada avanzano tranquillamente, ignorando il fondo sassoso e l’acqua bassa, ma su un passaggio più difficoltoso finiamo per perdere uno dei bagagli malamente legati da Jamal sul portapacchi del tetto, per cui si perde del tempo per il recupero.
Ovviamente, anche se è caduto nei pressi di un piccolo agglomerato di case, non solo nessuno ha rubato alcunché, ma addirittura è stato messo sul lato della strada, con una piccola pila di sassi sopra per facilitarne l’individuazione.
Adoro questi posti dove non ti devi guardare dalle mani altrui...
Nella gola si trovano un paio di punti in cui l’acqua che scorre forma una sorta di piscina, ma non c’è tempo per farsi il bagno.
Chilometri dopo, ritorniamo sulla strada asfaltata e arriviamo a Rostaq, il cui forte sarebbe chiuso per l’ora tarda ma, mentre i miei compagni di viaggio gironzolavano per il cortile, sono ugualmente riuscito ad intrufolarmi dentro e godermi la visita con calma.
Abbiamo poi visto da fuori il forte di Al Hazm, e siamo arrivati col buio a Sohar, patria del celeberrimo Simbad il marinaio.
Oggi la tappa è stata di 400 km, la più lunga; buona cena al Sarya, e poi a dormire al Sadaf Hotel Apartments, curioso albergo dai corridoi dipinti a colori vivaci e dalle stanza dotate di una piccola lampadina rossa... sa molto di albergo a ore, e i bagni sono qualcosa di poco attraente, ma ho visto (ed utilizzato) di peggio nei miei viaggi, per cui mi adatto anche stavolta.
Ibri, 30 dicembre
Oggi è un pieno giorno di festa: tutto chiuso. Ciò nonostante, riusciamo a visitare il forte di Sohar, che si differenzia dagli altri quanto meno per il suo colore bianco oltre che per la semplicità della pianta.
Ridiscendiamo la costa fino ad Al Khaburah, e rientriamo lungo l’Wadi Al Hawasina, sterrata ma meno spettacolare rispetto a quella percorsa ieri, per arrivare fino a Bat, dove si trovano i (pochi) resti di una necropoli risalente al 3000 a.C. e del basamento di una grossa torre.
Siamo poi passati alla città in rovina di Al Sulayf, nei cui vicoli di ruderi di fango mi sono inoltrato, curiosando all’interno delle case in rovina.
Dormiamo ad Ibri, all’Al Majd Hotel Apartments, dove ci danno degli appartamenti di due stanze da tre letti ognuna.
Cena al ristorante di fronte all’albergo, gestito – ma và? – da indiani, con cucina (ovviamente) indiana: ma non c’è scampo, considerata la giornata festiva ci ha detto pure bene a trovare un locale aperto.
Nizwa, 31 dicembre
Siamo partiti presto da Ibri per sfruttare le poche ore di sole, e siamo passati da Al Ayn, dove si trovava una necropoli sul tipo di quella di Bat, ma composta veramente da quattro sassi accumulati.
Poi, Jebrin e il suo forte ben conservato, e di lì a Bahla, dove siamo rimasti solo poco tempo perchè il castello è chiuso per restauri e il suq è chiuso per la giornata festiva.
Passati dinanzi al villaggio di Al Hamra, abbiamo proseguito inerpicandoci con le jeep sullo sterrato che porta a Jebel Shams, un massiccio dalla cui cima si gode la vista di una gola.
Poi a Tanuf (dove sgorga gran parte dell’acqua minerale che si beve in Oman), la cui città vecchia è completamente in rovina (e perciò, per me, molto suggestiva), e la cui oasi è alimentata dalle acque portate da condutture sotterranee (falanj).
A Nizwa alloggiamo fuori dalla città, all’Al Diyar Hotel, quasi lussuoso per i nostri standard, con curiose enormi stanze da tre letti anziché le consuete doppie (c’è pure una piscina).
Fermamente contrario a qualsivoglia festeggiamento, ho mandato gli altri a cenare e me ne sono rimasto in camera, approfittando per un doveroso bucato: è l’unica occasione per farlo, visto che non dormiremo altre volte per due notti sotto lo stesso tetto.
Ho dato un’occhiata a tutti i canali proposti dal ricevitore satellitare, e l’unico in italiano era... quello di una cartomante!
Nizwa, 1 gennaio 2007
Siamo partiti verso le 9 in direzione Jebel Al Akhdar, passando davanti all’ennesimo forte (Birkat Al Mauz), che fotograferemo al ritorno, con la luce giusta.
Passato il posto di controllo (Jebel Al Akhdar ha sulla cima un campo militare), abbiamo iniziato la salita sui ripidi tornanti di ottimo asfalto, per arrivare... a nulla.
In cima c’è un paese moderno e privo di qualsiasi attrattiva, ove abitano quelli che prima vivevano nei villaggi di fango sparsi per la montagna.
Due di questi ultimi sono visitabili con una breve passeggiata: io sono arrivato al primo, ma ritenendo la cosa di scarsissimo interesse me ne sono tornato al parcheggio delle jeep per prendermi un pò di sole in santa pace.
Ridiscesi dal monte (abbiamo superato i 2000 metri), ci siamo inoltrati nel Wadi Muyadin, prima in fuoristrada e poi a piedi, seguendo il corso del canale di irrigazione fino ad una bella pozza d’acqua sorgiva.
Al ritorno, giro per Nizwa, dove però il suq era chiuso, ma c’era un gran casino di bambini vestiti a festa che si facevano comprare giocattoli dai genitori (sembrava la Befana a Piazza Navona).
Il locale forte è carino, e offre dal torrione principale una bella vista panoramica.
Cena la ristorante dell’albergo, a buffet.
Al Raha Camp, 2 gennaio
Data un’altra inutile occhiata alla città vecchia di Nizwa, dove il suq ancora non era aperto, siamo partiti in direzione delle Wahiba Sands.
Ci attende l’oramai consueto, ultra turistico, “campo nel deserto”, il classico posto per “coglioni felici” che credono di passare una nottata “avventurosa” tra le sabbie.
Qui, addirittura, ci sono stanze doppie con bagno, tutto in muratura.
Siamo usciti a fare un giro in jeep sulle dune per vedere il tramonto, e poi la cena (puah!) nel campo.
Meno male che non ci hanno offerto pure la classica passeggiata sul cammello... non vedo l’ora di vedere ben altra sabbia, stavolta in riva al mare.
Ras Al Hadd, 3 gennaio
Arriviamo al Wadi Bani Khalid, con una grande vasca naturale scelleratamente circondata da piattaforme in cemento per i gitanti locali.
Camminando oltre, però, vi sono altre piccole pozze tra le rocce, fino ad una più grande ove si può agevolmente nuotare.
Più in là, guidati da un nugolo di ragazzini, in tre ci siamo inoltrati dentro un buco in una parete rocciosa, che scendendo in profondità per angusti e polverosi passaggi ci ha portato in una sala ove si poteva stare in piedi ed osservare, da un’apertura in basso, lo scorrere delle acque sotterranee che alimentano i falanj, ovvero i canali di irrigazione – oggi tutti in cemento – utilizzati per gli orti nell’Wadi.
Dopo un necessario bagno per eliminare la polvere e il sudore, siamo andati a vedere un altro forte (cominciamo ad averne abbastanza), Al Qamis, nonché la famosa (per le sue 54 cupole) moschea di Bani Bu Ali, imbruttita da delle orrende lampade al neon.
Arrivati a Ras Al Hadd, prendiamo alloggio al Ras Al Hadd Beach Hotel, con camere (ma solo quelle) all’altezza del gruppo Best Western cui appartiene: per il resto, l’edificio in quanto tale appare costruito con materiali scarsi, ed infissi inadeguati.
Tira un vento pazzesco, che rumoreggia ferocemente sulle vetrate della stanza: stanotte tappi per le orecchie.
Cena in albergo, a buffet, niente di che.
Andiamo a vedere ‘ste famose tartarughe verdi...
Colonna di una quindicina di fuoristrada, 40 persone (1 rial l’una) sulla spiaggia con una sola tartaruga che, poveretta, si vede arrancare su per la battigia.
Avendo visto un segnale di luce da parte di uno degli addetti al parco, uno della folla parte di corsa, e gli altri – pecoroni – di corsa dietro a lui.
La tartaruga, raggiunta, si chiede chi siano e cosa vogliano questi rompicoglioni, mentre lei vorrebbe solo depositare le sue uova secondo natura, sicché si gira e cerca di tornare in mare.
Uno dei locali le sbarra il passo (lo spettacolo non può essere scarso e breve allo stesso tempo, la gente ha pagato), e la povera bestia si ritrova circondata, finché si decide che la gente possa essere soddisfatta, e le si da la possibilità di rientrare in mare.
Sur, 4 gennaio
Dopo una doverosa (?) visita allo scarsissimo forte di Ras Al Hadd, sulla strada abbiamo visto due gruppi di uomini ballare su di uno spiazzo, agitando fucili e sciabole: scene da un matrimonio, con i maschi delle due famiglie che si “affrontavano” a colpi di ballo davanti alla casa della sposa.
Abbiamo proseguito per il faro di Ayajh e per il forte (ahinoi) di Sunaysilah, per poi passare ai cantieri navali di Sur, ove vengono costruiti (a mano) i dhow.
Di tutta questa roba, nulla di interessante per me, che ormai non resisto più a girare in gruppo.
Lo so che alla fine sono io il rompipalle e che dovrei evitare questo tipo di viaggi, ma non ce la faccio a fare il turista circondato da gente con la quale ho poco o nulla in comune... per il prossimo dovrò sforzarmi a partire da solo: meno stress per me e per chi mi sta accanto.
A Sur alloggiamo al Sur Hotel, molto modesto, e ceniamo all’Arabian Sea Restaurant, nello stesso stabile dell’albergo.
Un giro per i negozi moderni (al solito, tutti gestiti da indo-pakistani) non ha soddisfatto alcuna curiosità.
Muscat, 5 gennaio
Ripartiti da Sur in direzione Muscat, affrontiamo la strada costiera in costruzione ad opera di ingegneri e personale cinese (ma degli omaniti c’è qualcuno che lavora?).
Decine di chilometri di sterrato, passando per il mausoleo di Bibi Miriam, ridotto a poco più di un rudere (ma in fase di restauro), e per il Wadi Tiwi, nulla di particolare rispetto agli altri già visti.
A questo punto in quattro decidiamo di saltare il Wadi Shab e di dirigerci direttamente con una delle due jeep verso White Beach per fare un pò di spiaggia, visto che finora di mare se ne è visto ben poco.
Gli altri ci hanno raggiunto dopo poco più di un’ora e mezzo, dopodiché abbiamo proseguito insieme per Qurayat (altro forte, ma per fortuna è l’ultimo), e poi per Muscat, dove – lasciati i fuoristrada e preso posto nel solito Naseem Hotel – abbiamo cenato all’Arab World Restaurant, nel quartiere di Ruwi, proprio vicino alla moschea di Al Qaboos: consigliato l’omani oven mutton, delizioso.
Muscat, 6 gennaio
Oggi è l’ultimo giorno in Oman, e andiamo tutti a vedere la Grande Moschea, situata sulla strada per l’aeroporto e costruita nel 2000 per volere del sultano Qaboos.
Molto bella al suo interno, con il tappeto più grande del mondo (70x60, quattro anni di lavoro per 600 tessitrici iraniane) e un gran bel lampadario centrale.
Una lunghissima passeggiata (un’ora e un quarto) mi ha portato, attraverso il quartiere delle ambasciate – penoso lo spettacolo della nostra, che si distingueva dalle altre per il tricolore, la bandiera dell’Unione Europea, e... un gran pavese di panni stesi sul tetto – fino sulla spiaggia di Qurum, nella zona “fighetta” della città.
Purtroppo anche qui troppo vento, e faccio una ben strana figura con il pile addosso e le pinne in mano.
Mentre ero sdraiato sulla sabbia, è passato un paio di volte un coatto locale con il quad, rombando ed impennando sulla battigia: ovviamente gli ho augurato di cappottarsi, cosa che ha provveduto a fare proprio dinanzi a me.
Purtroppo non ho fatto in tempo a fotografare la scena spettacolare (ma senza gravi conseguenze, visto che poi ha ripreso la sua attività): l’immagine sarebbe stata degna di Sports Illustrated...
Un taxi (3 rial) per tornare a Mutrah, l’attesa della cena (stanchi di ristoranti indiani, alcuni di noi hanno optato – in via del tutto eccezionale – per un asettico Pizza Hut), e il viaggio su due pulmini per l’aeroporto.
“E anche quasto natale ce lo siamo levato...”
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Non mi sento di consigliare un viaggio in Oman.
Potrà forse piacere a chi non ha visto molto in giro, ma a me ha lasciato parecchio insoddisfatto.
Antichità, neanche a parlarne, i forti sono del XV secolo e tutti simili nella loro semplicità, delle Wadi è stata bella la prima, Wadi Bani Afw, mentre le altre non erano eccezionali.
Il mare: ne abbiamo fatto poco (almeno per i miei gusti: ero venuto qui proprio per fare un pò di snorkelling), ma quel poco non si è rivelato poi bellissimo.
Il cibo: difficilissimo, incredibile a dirsi, trovare ristoranti di cucina omanita, in quanto quasi tutti gli esercizi sono gestiti da indo-pakistani e oramai nel Paese si mangia con i gusti del subcontinente indiano.
La gente è gentile e cordiale, come spesso ho riscontrato in Medio Oriente, non tutti parlano un buon inglese ma si riesce sempre – come al solito – a farsi capire.
Ottime le strade, ma per i tratti di sterrato (per non parlare della sabbia) le jeep sono fondamentali.
L’Oman è un Paese ricco e non manca alcunché, ma per stimolare la mia attenzione ormai ci vuole ben altro...